Prima missione del CLNAI in Svizzera (29 marzo-5 aprile 1944)
Seconda missione del CLNAI in Svizzera (23 ottobre-8 novembre 1944)
dal 7 agosto sospesa la pubblicazione di nuovi articoli
Arturo Arosio
«Quando il tuo corpo
non sarà più, il tuo
spirito sarà ancora più
vivo nel ricordo di
chi resta.
Fa che possa essere
sempre di esempio»
(ultimo messaggio lasciato scritto sul muro
di una cella delle carceri di Via Tasso
a Roma
da uno dei martiri delle Fosse Ardeatine)
Il 18 marzo 1945 veniva fucilato dai nazifascisti Arturo Arosio.
Di anni 19. Nato a Lissone (Milano) il 24 maggio 1925, come molti altri giovani risponde al bando Graziani di chiamata alle armi e si arruola nella Divisione alpina «Monterosa»; addestrato con i commilitoni a Münsingen, in Germania, sotto la diretta supervisione dei tedeschi, rimpatria nella seconda metà del 1944 ed è dislocato in un reparto di presidio nell'entroterra ligure. Valutata la situazione, diserta e si aggrega ai partigiani della Brigata «Centocroci» di La Spezia. Catturato durante un rastrellamento, viene processato per diserzione e condannato a 30 anni di reclusione, grazie alla difesa di un capace avvocato, Emilio Furnò, che riesce ad evitargli (seppure per poco) la fucilazione. La sera del 13 marzo 1945 due partigiani armati di rivoltella irrompono nell'abitazione del tenente della X flottiglia Mas Roberto Gandolfo (arruolato nella 5a Compagnia del Battaglione «Lupo») e lo uccidono insieme a suo padre. Per rappresaglia il Tribunale militare di Chiavari condanna a morte con rito sommario sei prigionieri (Arturo Arosio, Giuseppe Barletta Alessandro Sigurtà, Emanuele Giacardi, Luigi Marone e Mario Piana), prelevati il 18 marzo dalle carceri, condotti sul luogo dell'azione partigiana, in località «Villa Pino» di Santa Margherita di Fossa Lupara (comune di Sestri Levante), e fucilati da un plotone della 3a Compagnia della XXXI Brigata Nera «Generale Silvio Parodi» comandato dal tenente Giuseppe Barbalace. Per cinque di essi la fine è immediata; il sesto, Mario Piana, lasciato per morto, trascinatosi sul terreno riesce a raggiungere il vicino bosco, dove è ritrovato dopo alcune ore dai partigiani; ricoverato all'ospedale da campo di Santo Stefano d'Aveto, si spegne nel giro di pochi giorni per emorragia. Sul luogo della fucilazione, accanto alla casa della famiglia Gandolfo, un cippo ricorda i sei fucilati. La salma di Arturo Arosio è trasportata a fine maggio 1945 a Lissone, suo paese natale, per la celebrazione di solenni funerali partigiani. (tratto da “Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza 1943-1945” a cura di Mimmo Franzinelli – Ed. Oscar Storia – marzo 2006 pag.87, 88 e 89)
Lettera alla famiglia del 5 maggio 1944, scritta durante l’addestramento in Germania
Tratte dalla pubblicazione “Le Brigate del Popolo” del 17 gennaio 1946 (pagg. 12 e 13)
ARTURO AROSIO 14ma Brigata del Popolo
Partigiano di fede, per il suo ideale sacrificò la vita. Dopo un lungo periodo di dura prigionia venne fucilato a Sestri Levante dai tedeschi, perche appartenente a formazioni partigiane.
Unico sentimento espresso nell’ultima lettera ai suoi cari l'orgoglio di morire per la sua Patria "Italia”.
Fucilato a Sestri Levante il 18 marzo 1945.
UNA LETTERA
Un glorioso caduto ebbe la 14.ma Brigata: il caporale Arturo Arosio, nome di battaglia “Tarzan”, fucilato il 18 marzo 1945 dai nazifascisti di Sestri Levante. Ad illustrare la figura di “Tarzan”ogni nostra parola sarebbe vana per cui ci rimettiamo alla sua penna pubblicando stralci della lettera scritta poco prima di essere condotto alla fucilazione.
Chiavari, 16 marzo 1945
Cara mamma. Carletto, Antonio, Bruno, Angelina, Ernestina, Luigia e il cognato Luigi, Zii, Zio, parenti, cugini e cugine, amici.
Eccomi a Voi con questo ultimo mio scritto primo di partire per la mia sentenza, io muoio contento di aver fatto il mio dovere di vero soldato e di vero italiano; cara mamma sii forte che io dal cielo pregherò per te; sei stata l'unica consolazione, hai sofferto tanto per me e soffrirai ancora dopo la mia morte? Cara mamma io pregherò tanto per te e per i fratelli e sorelle!
Cari fratelli e sorelle, siate orgogliosi di aiutare la mamma e sopportare la sua pesante croce che dovrà portare in alto dei cieli. Mamma non piangere per me, pensa che tu mamma nell’altra guerra, hai avuto un fratello caduto al fronte, e io vado a raggiungerlo la dove godrò un'altra vita felice e beata, dove ci sarà un altro tribunale davanti a Dio onnipotente, là dove ci sarà finalmente giustizia per quelli che hanno fatto del bene o del male.
Cara mamma, fratelli e sorelle, nel momento della mia morte, invocherò e pregherò per voi, pregherò il Signore perché vi benedica e vi tenga sani in una lunga vita di pace e felicità. Miei cari fratelli ricordatevi di me nelle vostre povere preghiere, credo che tutto il male che vi ho fatto, me l'avrete perdonato; scusatemi se vi ho fatto arrabbiare e perdonatemi di tutto.
Al mio caro Carletto, che tutti giorni facevo impazzire credo che mi perdonerà di tutto il male che gli ho fatto, per le volte che l'ho fatto piangere? Mi perdoni?
Ai miei cari fratelli Anselmo e Bruno, per fare che aiutino la mamma e sia ubbidienti e laboriosi, ricordino che il loro fratello è stato processato e dopo fucilato nella schiena.
Alle care sorelle Ernestina, Angelina e Luigia perché mi perdonino e preghino per me, che io pregherò per loro quando salirò in cielo.
Alla mia cara mammina che tanto piangeva per me, mamma sii forte a sopportare questo tremendo delitto, che Dio penserà a maledire questi uomini senza fede e senza speranza in Dio. Dio non paga solamente al sabato, ma paga tutti i giorni. Fate bene fratelli, che il tempo passa e la morte s’avvicina.
Vi mando i miei ultimi saluti e baci, tanti bacioni a te mamma, baci a voi cari fratelli, Carlo, Anselmo, Bruno, baci alle mie care sorelle Angelica, Ernestina, Luigia e Luigi.
Vostro fratello Arturo.
Tuo figlio ti manda tanti baci, tanti saluti; ci rivedremo in cielo.
Arturo, ciao mamma mia.
Salutami la zia Vittorina, Viola, Salvatore, lo zio Giuseppe, la zia Agnese, Arturo, Teresina, Arcangelo, Maria Adelaide, zia Giovanna e tutti i suoi figli, lo zio Alessandro, zia Paolina, Alfonso, sua moglie e i suoi figli, Arturo e tutti gli altri parenti che non ricordo più.
Baci a tutti, ci rivedremo in cielo, Ciao, ciao, ciao.
Mamma, miei fratelli e sorelle, pregate per me. Baci, baci, baci.
Vostro Arturo.
Un inutile commento sciuperebbe la piena di commozioni e sentimenti che suscita la lettura di questa lettera, sono parole semplici di un'anima semplice che va a presentarsi a Dio, conscia di aver fatto null'altro che il proprio dovere.
Ed in pochi minuti prima di morire ecco il suo nobile post scriptum alla lettera.
Chiavari, 18 marzo 1945.
Cara mamma,
sii forte che io vado a trovare il caro e amato papà e tutti i nostri cari morti. Baci, baci, baci.
Saluti a tutti i nostri cari parenti. Ciao mamma, fratelli e sorelle.
Vostro Arturo - Ciao.
Arturo era credente: a lui dedichiamo la «Preghiera del partigiano»:
"Signore, cala la notte sui monti, ed io elevo a Te la mia preghiera. Tu che leggi nel cuore degli uomini, ascolta questa voce. Benedici la mia casa lontana, coloro che in ansia attendono il mio ritorno.
Benedici i compagni che vegliano in armi, fa' che l'occhio sia vigile, pronta la mente, salda la volontà.
Benedici la gente d'Italia, i fratelli che soffrono, perché dalle loro pene fiorisca la libertà, ritorni il regno della giustizia.
Accogli nel Tuo mondo di luce i nostri Morti, rendimi degno del loro sacrificio.
Fa' che ogni mio gesto, ogni pensiero, sia puro come le nevi, guarda con misericordia alle mie colpe.
Benedici l'Italia, o Signore, benedici coloro che nel suo nome operano e combattono.
Così sia".
Il cippo in località Santa Margherita di Fossa Lupara (comune di Sestri Levante) che ricorda i partigiani caduti tra cui Arosio Arturo
Il Comune di Lissone nel decennale della Liberazione
Arturo Arosio aveva tre fratelli e tre sorelle. Abitavano in Via Crippa a Lissone. Nella foto degli anni ’30, Arturo è il primo a destra.

Due sono stati i processi cui è stato sottoposto Arturo Arosio dopo la sua cattura, il secondo dei quali è stato una vera e propria farsa: una sentenza scontata, pronunciata, nel pomeriggio del 18 marzo 1945 dopo un processo con rito sommario, da giudici militari del Tribunale di guerra della “Monterosa”, giudici succubi del regime tirannico della Repubblica Sociale Italiana, ormai con i giorni contati, e sotto la minaccia delle Brigate Nere.
Emilio Furno, uno dei tre avvocati difensori che con le loro arringhe hanno tentato di evitare la condanna alla fucilazione dei sei partigiani rinchiusi nel carcere di Chiavari, così scrive:
“Chiavari, 18 marzo 1945.
Oggi al tramonto, in S. Margherita di Fossa Lupara, Brigate Nere hanno eseguito la sentenza di morte contro un gruppo di Partigiani, pronunciata nel pomeriggio dal Tribunale di Guerra della «Monterosa». Oggi la morte ha stroncato la giovinezza di altri nostri fratelli.
La sera cade sui corpi insanguinati di Barletta Giuseppe, Piana Mario, Marone Luigi, Arosio Arturo, Sigurtà Alessandro, Giaccardi Emanuele.
Come erano giovani!
Barletta, Piana, Arosio, Giaccardi vent'anni. Marone ventuno. Sigurtà ventidue.
Pesa su di me un'invincibile angoscia, fatta di avvilimento e d'ira.
Ho lasciato il Tribunale piangendo né mi· son dato pena di·nascondere le lacrime ai Giudici militari, silenziosamente raccolti sulla scalinata di Villa Navone. Ma non serve a nulla il piangere! Sottolinea soltanto la mia impotenza. E non solo la mia. Quando finirà questa guerra fratricida?
Rolando Perasso, Giovanni Trucco, fraterni compagni nella dolorosa via che essi stessi mi hanno esortato a percorrere, sono stati fino a tardi con me. Rolando ha detto poche parole, vincendo la sua pena di uomo con l'accettazione del combattente. Più loquace Trucco, con il quale ho spartito la fatica e la difesa e che oggi ha pronunciato un'orazione ardente e coraggiosa.
Caro Giovanni! Ricorderò sempre quello che hai detto oggi in Tribunale. Ed i pallidi volti dei giudici.
Domani, forse, sembrerà nulla, sembrerà naturale, ma oggi ci vuole molto coraggio a dire certe cose! Trucco ha detto che voleva portare in aula la voce e l'ammonimento del popolo, assente, ma presente. E ha portato questa voce, chiedendo la liberazione dei giovani con estrema energia.
Il vecchio alpino non ha avuto peli sulla lingua. Trucco ed io abbiamo speso tutte le nostre forze. Qualcosa abbiamo ottenuto. Gli imputati erano dieci. Quattro hanno avuto salva la vita. Ma non basta al nostro cuore. Ho negli occhi i sei condannati.
Piana Mario, ancora ferito al viso, calmissimo. Affrontava risoluto il suo ultimo combattimento. Marone Luigi aveva conservato, ancor dopo la condanna, la sua ligure compostezza. E dalla scalinata del Tribunale guardava il sole, alto nel cielo. Barletta, Arosio, Sigurtà, Giaccardi hanno saputo vincere il tremito della carne. Tutti intorno a me, prima di salire sulla corriera, che li avrebbe portati a S. Margherita di Fossa Lupara. Che sforzo a non piangere davanti ad essi. Marone mi ha consegnato il portafoglio, ricordo per il padre. Lo apro questa notte. V'è la sua fotografia, un'immagine di S. Antonio, una moneta abissina.
La mia angoscia aumenta. Aumenta la mia solitudine. … E' ancora guerra.
Eppure la primavera si è già affacciata sull'appennino e guarda dolce il ligure mare. Ma la primavera non ferma il destino. Avv. Emilio Furno” (da “Storia della Divisione Garibaldina «Coduri» di Amato Berti e Marziano Tasso Seriarte Genova 1982)
In corriera i sei partigiani, tra cui Arturo Arosio, vengono portati da militi delle Brigate Nere a Santa Margherita di Fossa Lupara, frazione di Sestri Levante.
Su un dosso tra viti ed ulivi, a poca distanza dal mare, in un paesaggio che suscita sentimenti di pace e di tranquillità in chi oggi raggiunge il luogo, avviene la tragedia.

Nel silenzio della natura, siamo stati anche noi oggi, muti, sul posto dove un cippo ricorda i sei partigiani fucilati: Arturo è il primo della lista.

Abbiamo trovato dei fiori freschi che gli amici dell’ANPI di Sestri Levante avevano appena deposto. Poi abbiamo scambiato delle parole con gli attuali proprietari del terreno su cui avvenne la fucilazione: a noi, nati con la Costituzione repubblicana, in un Paese libero, hanno raccomandato di far conoscere ai giovani ciò che è stato. E' un impegno che ci proponiamo di mantenere.
Tre Italie nella bufera
Il confuso quadro politico del Paese nel quarto anno di guerra.
Non ha nome, né governo né Parlamento; non emette leggi, né batte moneta e non ha neppure una vera capitale. I suoi confini sono angusti, abbracciano soltanto quattro province (Bari, Brindisi, Lecce, Taranto) e due milioni di abitanti. Roosevelt l'ha definita King's Italy, l'Italia del re: eppure è proprio questo piccolo regno del Sud a rappresentare, nello sfacelo seguito all’armistizio dell'8 settembre 1943, la continuità del Paese, la nascita pur timida e incerta della nuova democrazia italiana.
Piccolo regno, quello del Sud, con nessunissimo potere, sottoposto al rigido controllo di una commissione militare alleata - presieduta dall'inglese Mac Farlane e dall'americano Maxwell Talor - che nel complesso, nutre scarsa simpatia o totale indifferenza per l'Italia in genere e per Vittorio Emanuele III in particolare.
Piccolo regno quello del Sud, con una piccola reggia (la villetta dell'Ammiragliato a Brindisi) e una piccola Corte dalla quale, con la precipitosa fuga da Roma, sono scomparsi i Gran Maestri di Palazzo, i Segretari Generali, gli Scudieri Onorari, i Prefetti, le Dame di compagnia, i Cappellani.
Un regno con un governo di quattro ministri (Badoglio, Piccardi, De Courten, Sandalli) che ha vita stentata e che governa soltanto su miseria, fame, epidemie, distruzioni. Il Sud, già tradizionalmente povero, è stato ridotto al lumicino dai bombardamenti aerei e navali, dalle requisizioni tedesche e dall’invasione alleata; adesso l'ultimo colpo glielo dà l'inflazione che si scatena con l’introduziona delle «am-lire», quei lunghi fogli rettangolari azzurrini, simili in tutto ad assegni, che recano al centro stampato con gran numeri, il loro valore.
Al Nord un abile ministro di Salò, Pellegrini-Giampietro, è riuscito a far ritirare ai tedeschi il marco di occupazione e a ottenere un cambio quasi equo, date le circostanze, (un marco uguale a dieci lire); nel Meridione Badoglio invano scrive, supplica protesta e si rivolge personalmente a Churchill: la gente del Sud pagherà 100 lire per un dollaro, 400 per una sterlina. Così, di colpo, il potere d'acquisto dei soldi italiani si volatilizza (un soldato semplice americano guadagna 6.000 lire al mese pagate in dollari mentre il prefetto di Taranto ne riceve 2.500 in «am-lire») e le banche vengono prese d'assalto dai risparmiatori, i capitali spariscono, la miseria nelle campagne è totale e spinge a tumulti e rivolte.
Da oltre Atlantico arrivano i divertimenti e le novità: gli eserciti alleati hanno portato il boogie-woogie e dalle navi sbarca - insieme con le tavolette di chewing-gum e con un veicolo mai visto, la jeep - anche un farmaco quasi miracoloso, la penicillina.
Con la fame diventa irrefrenabile la delinquenza dilagante. La città più tormentata è Napoli, col suo milione di abitanti assiepati nei «bassi» privi d'acqua, di luce e di fognature, fra vicoli stracolmi di spazzatura gettata dalle finestre e infestati da legioni di topi.
La metropoli vive di mille mestieri per lo più illeciti tra cui fanno spicco la prostituzione, il furto e il contrabbando.
La promiscuità, la sporcizia, la carenza d'acqua provocano epidemie a ripetizione: dall'ottobre 1943 al luglio 1944, a Napoli, ne scoppiano due ed entrambe di tifo con un bilancio di quasi ottocento morti.
Ma altre nubi s'addensano sulla piccola reggia di Vittorio Emanuele III. Un re che, caparbio, non vuole abdicare che non sente la necessità di un Parlamento e che impiega settimane a decidersi a dichiarare guerra alla Germania quando invece, nel 1940, aveva approvato quella fascista in un baleno.
Il governo Badoglio, privo dell'aiuto dei partiti che gli negano la collaborazione se il re non se ne va, ha difficoltà a mettere in piedi un piccolo esercito che affianchi gli alleati (i generali non gli mancherebbero: da Roma, all'8 settembre, ben 57 sono fuggiti al Sud) e la frustrazione aumenta con il «lungo armistizio» che Badoglio, a Malta, è costretto a firmare quasi col coltello alla gola.
Ma poi, con la primavera '44, qualcosa muta nel quadro politico. Il cambiamento comincia con l'arrivo da Mosca di un signore sui cinquant'anni, occhiali da miope, piccolo, tarchiato, con un incredibile maglione a scacchi e i calzoni che gli fanno le borse sui ginocchi: quest'uomo dall'aria di professore, conosciuto nella clandestinità con nome di Ercole Ercoli, è in realtà Palmiro Togliatti (e c'è la scena di Togliatti che appena sbarcato a Napoli dalla motonave Tuscania, va a bussare a tarda sera alla porta della federazione comunista in via San Potito dove, in quel momento, sono riuniti Maurizio Valenzi, Eugenio Velio Spano e altri dirigenti del PCI. Salvatore Cacciapuoti, che lo riceve, lo scambia per un compagno bisognoso e cerca di disfarsene: «Vieni domani, ora è tardi, qui è tutto chiuso»).
Togliatti rovescia clamorosamente la strategia comunista con la «svolta di Salerno»: l'obiettivo - dice - è la liberazione dell'Italia e per l'aggiungerlo occorrono la concordia e l'unità nazionale».
Mentre il PCI entra nel governo Badoglio - e Stalin ne rafforza subito la posizione internazionale riconoscendolo ufficialmente e costringendo così Stati Uniti e Gran Bretagna a fare altrettanto – Enrico De Nicola vince abilmente le resistenze del re sull'abdicazione, il nostro Corpo di Liberazione (CIL) si batte bene a Montelungo e finalmente, la notte fra il 4 e il 5 giugno '44, gli alleati entrano a Roma.
La Repubblica Sociale Italiana
Sul fronte opposto, cioè, sul territorio della nuova repubblica fascista (due terzi dell'Italia ventotto milioni di abitanti) non vi è alcuna autorità riconosciuta tranne Mussolini. I tedeschi, a parole «fedeli camerati e alleati», nella pratica esercitano un assoluto e ferreo controllo su ogni aspetto della vita politica e amministrativa nominando perfino i prefetti (come a Torino) o istituendo nelle singole province, un funzionario superiore dell'amministrazione militare germanica quale controfigura del prefetto italiano (rapporto Hufnagel, 20 febbraio 1944). Il governo di Mussolini non ha potere anche perché privo di adesioni concrete e di uomini di rilievo. Gli iscritti al Partito Fascista Repubblicano sono pochissimi (circa 250.000) e non si sa bene da dove provengano, ideologicamente, che cosa cioè li abbia mossi, che cosa si attendano dal futuro.
Fra gli aderenti al Partito Fascista Repubblicano c'è un solo nome veramente noto nella cultura, il filosofo Giovanni Gentile, e uno altrettanto noto della casta militare, il maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani. Sessantototto anni, nativo di Castelvetrano (Trapani), liberale di destra, ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini e poi senatore del regno, Gentile - il filosofo dell' «atto puro» e l'autore di una fondamentale riforma della scuola - ha dato il suo appoggio alla repubblica di Salò con un pubblico discorso a Roma: «La resurrezione di Mussolini ha detto «era necessaria come ogni evento che rientra nella logica della storia». In cambio, il duce lo nominerà presidente dell'Accademia d'Italia.
Graziani, invece, cerca nella Rsi la sua «revanche» sull'odiato Badoglio dal quale è stato diviso per anni da gelosia personale. Nato a Filettino di Frosinone, sessantunenne, e comandante di truppe coloniali in Libia e in Somalia ex viceré d'Etiopia ed ex capo di Stato Maggiore dell'esercito, il maresciallo Graziani accetta la carica di ministro delle Forze Armate.
Mancando Roma come capitale, alcuni ministeri sono sparsi lungo le sponde del lago di Garda fra Salò (Esteri e Cultura Popolare), Maderno (Interno e direzione del partito), Desenzano (Forze Armate) e Bogliaco (presidenza del Consiglio dei Ministri). Altri sono a Vicenza, Treviso, Padova, San Pellegrino, Brescia, Verona, Cremona, Venezia.
Poveri e miseri ministeri, messi su di fretta e in preda al disordine.
Mussolini è invece alloggiato a villa Feltrinelli, a due chilometri da Gargnano: questo palazzetto ottocentesco, di media grandezza, con una facciata di marmo rosa e circondato da un piccolo parco in riva al lago, gli serve contemporaneamente da ufficio e da abitazione. I suoi «guardiani» non sono distanti: Rahn è a Fasano, Wolff a Gardone. La villa Feltrinelli è guardata a vista da un distaccamento della Leibstandarte «Adolf Hitler», reparto speciale di SS, che ha montato un cannone antiaereo sul tetto di un edificio vicino. Presta servizio di guardia anche la milizia fascista ma tutte le comunicazioni di Mussolini sono strettamente controllate dai tedeschi - e debitamente registrate su disco - e anche le sue telefonate personali debbono passare attraverso un centralino da campo germanico.
E ci sono anche i nuovi fascisti, arrivati alla RSI dall'estremismo inconsulto, giovani imbevuti della propaganda di un ventennio, teppisti di vecchia data reclutati fra il sottoproletariato o nelle galere che formeranno quanto prima il nerbo delle compagnie di ventura e di tortura (i Bardi, i Pollastrini, i Carità, i Koch, i Colombo, gli Spiotta. Oppure gente che ha vissuto ai margini del fascismo fino all'8 settembre e adesso è carica di rancori e di invidie. Personaggi violenti come gli uomini del federale di Como, Porta, che bastonava i passanti che non alzavano il braccio nel saluto romano al loro passaggio.
Questi sono i nuovi fascisti che faranno la storia di Salò; sono i militi in maglione nero accollato, berretto alla paracadutista, gladio al posto delle stellette e mitra in mano che a Savona, agli operai in sciopero al grido di «Pane, pane!», ritorcono con una torva minaccia: «Avrete del piombo, non del pane».
Attilio Mazzi
27/4/1885 9/4/1945 a Mauthausen-Gusen
Oggi desideriamo ricordare Attilio Mazzi che per il suo dichiarato antifascismo perse la vita. Dedichiamo queste brevi note a tutti i suoi parenti.
Alle 17 Mussolini porta al re le decisioni del Gran Consiglio e viene informato che sarà sostituito a capo del governo dal generale Badoglio. Al termine dell'udienza Mussolini viene tratto in arresto.


Il radiogiornale della sera (alle ore 22.45) informa gli italiani dell'accaduto.


Ma dopo la fondazione della Repubblica Sociale, il 22 febbraio 1944, la polizia arresta Mazzi davanti alla stazione, all'arrivo dalla sua abitazione di Milano. Rinchiuso nelle carceri di Monza, interrogato dalle SS, viene trasferito a San Vittore. Negli stessi giorni il suo magazzino di legnami di via Roma viene saccheggiato: da un momento all'altro la sua famiglia si trova senza più nulla, sul lastrico. Il 27 aprile 1944 Attilio Mazzi, per il suo dichiarato antifascismo, è internato nel campo di concentramento di
Fossoli (dove, il 12 luglio 1944, rischia di essere fucilato con Davide Guarenti), prima di finire i suoi giorni, per la fatica sul lavoro e gli stenti, nel lager di Mauthausen-Gusen. Da Fossoli

Stalingrado: fine di un esercito
Tre grandi città segnano il destino dell’invasione tedesca in Russia: Leningrado, con il martirio dei suoi abitanti, Mosca, con la dissennata ostinazione di Hitler che non vuole essere inferiore a Napoleone, e Stalingrado che vede frantumarsi il potenziale distruttivo delle armate tedesche. Quando la città è divenuta un cumulo di macerie i sovietici cominciano a dettare le regole del gioco: lasciano avanzare i carri armati che finiranno comunque in trappola tra mucchi di mattoni e di cemento e distruggono le fanterie, attaccano di notte quando il nemico è maggiormente in difficoltà, attendono che questi concentri al massimo le sue forze per poi chiuderlo in trappola.
Da un articolo di Enzo Biagi in La Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1989
Sono arrivato a Volgograd, dove non ero mai stato; si chiamava Stalingrado, e l'hanno scioccamente epurata. Mi ha detto un collega della «Pravda» che le ridaranno il nome per cui è conosciuta in tutto il mondo, ma la burocrazia è lunga e il partito prudente.
È sulla collinetta di Mamaja, sulla terribile quota 102, che Hitler ha perso la guerra, ed è cambiato anche il nostro destino. I tedeschi che combattono lo chiamano «il grande fungo» ed è un intrico di ridotte, di nidi di mitragliatrici, di postazioni di mortai. Adesso è meta di turisti e di scolaresche.
Paulus si è rifugiato nei sotterranei dei Grandi Magazzini; una cantina di quattro metri per quattro, ricoperta di legno, riscaldata da una stufa di argilla, costruita sul posto dai soldati.
Il suo rancio è due zuppe al giorno e una fetta di pane; a un comandante di battaglione insignito della croce di ferro, pochi giorni prima della resa, ha mandato in dono una pagnotta una scatola di aringhe al pomodoro.
La mattina del 31 gennaio 1943, un ufficiale del corpo di guardia si affaccia all'emporio e avverte: «I russi sono alla porta». Friedrich Paulus decide di farla finita e «senza tante storie», precisa; si avvia all'uscita pallido e umiliato. Nella notte è stato promosso feldmaresciallo. Fuori, lo aspettano anche i fotografi. E un momento che va ricordato. Nella foto: Paulus, feldmaresciallo da un giorno, appare di spalle mentre va a comunicare lo resa a Nikita Krusciov.
In vetrina espongono ora giocattoli di pezza e profumi a buon mercato. In quello che era il rifugio di Vasilij Ivanovič Čujkov, l'avversario, sulla riva del Volga, dentro la roccia porosa, han sistemato un ristorante. Più in su, c'è un teatro: stasera si rappresenta Ballo al Savoy.
Quando, il 21 giugno 1941, un sabato, Hitler dà ordine di attaccare l'Unione Sovietica, al Cremlino non dovrebbe esserci sorpresa; le spie li hanno avvertiti perfino del giorno e dell'ora dell'invasione. Soltanto trenta minuti dopo mezzanotte, il commissario del popolo alla Difesa Timošenko ordina alle truppe delle regioni di confine di prepararsi a resistere. Eppure, racconta il diplomatico Berezkov, che sta in quel momento all'ambasciata di Berlino, già in febbraio un tipografo amico gli ha portato un manuale di conversazione russo-tedesco, avvertendolo che se ne stanno stampando migliaia di copie. Il frasario è di questo genere: «Dov'è il presidente del Kolchoz?», «In alto le mani, o sparo», «Arrenditi».
La dichiarazione ufficiale di guerra la fa Ribbentrop, alle tre del mattino, davanti agli operatori e ai giornalisti: ha la faccia gonfia, gli occhi appannati, le palpebre arrossate. Balbetta, ha bevuto. L'ambasciata dell'URSS nel congedarsi commenta: «Questa volta la pagherete cara».
La rapidità e la portata dei successi della Wehrmacht sbalordiscono. Le divisioni corazzate minacciano la capitale: le punte avanzate arrivano a una trentina di chilometri. Stalin non si muove. Organizza uomini e mezzi per bloccare il nemico. Telefona a Zukov, il vice capo della Stavka, l'alto comando: «Siete certo di poter tenere Mosca? Ve lo chiedo col cuore straziato, da comunista».
Risposta: «Senza alcun dubbio. Ma avremo bisogno di due armate con più di duecento carri armati».
Zukov mantiene la promessa: e l'esercito nazista non arriverà mai, come Napoleone, ad assestarsi sulla Collina dei Passeri: nella battaglia per Mosca perde più di mezzo milione di soldati, 1300 carri armati, 2500 cannoni e una quantità enorme di materiale. Viene respinto di oltre 100 chilometri verso Ovest.
Più tardi Hitler, riferisce Rahn, un suo diplomatico, ammette l'errore: «Per quanto riguarda i russi, mi sono effettivamente sbagliato, e per la prima volta. Al momento dell'invasione contavo che disponessero di 4000 carri armati, e ne avevano invece 12.000».
Eppure il conte von der Schulenburg, che nell’URSS rappresentava il Terzo Reich, non aveva nascosto il suo giudizio e le sue previsioni: «Le cose non potranno mai andar bene. Non si ha alcuna idea della potenza dell'Armata Rossa e dell'energia concentrata nell'ideologia sovietica».
Quando torna la buona stagione, Hitler lancia il «Progetto Azzurro», una larga manovra che ha come obiettivo l'occupazione del Caucaso e la conquista dei giacimenti petroliferi: Stalingrado, nei suoi piani, ha una importanza marginale. E una città industriale che, nel 1925, ha preso il nome del capo: prima si chiamava Sarizija, ma il compagno Dzugasvili nel 1918 sostò da queste parti come commissario di guerra; c'era da battere i «bianchi» del generale Krasnov. Invece, per cinque mesi, in quelle strade, si svolgono «i combattimenti più esasperati del secondo conflitto mondiale».
Alla fine di ottobre nove decimi del centro urbano sono occupati dai reparti nazisti, e la bandiera di combattimento del Reich sventola sulla piazza principale: ma Zukov, che coordina la controffensiva, avverte: «Presto avremo un giorno di festa».
Paulus vede le sue divisioni combattere e cadere disperatamente, in una lotta disumana, ma non sa ribellarsi; il chilometro, come unità di misura, scrive Paul Carell, cede il posto al metro, la carta dello Stato maggiore è sostituita da quella topografica: si spara in un vecchio mulino, tra i serbatoi d'acqua, sulla linea ferroviaria; capita che nello stesso appartamento i sovietici, riferisce il corrispondente Walter Kerr, hanno occupato la cucina e i tedeschi il soggiorno.
I rifornimenti promessi dalla Luftwaffe non arrivano, o vengono scaricati in quantità minima, o finiscono, coi lanci, tra le macerie, o nelle mani del nemico. Confessa poi Paulus: «Lottavo dentro di me, e mi chiedevo se dovevo preferire l'obbedienza che mi veniva chiesta con l'argomento perentorio che ogni ora guadagnata era di vitale importanza, oppure la compassione umana per i miei soldati. Credetti allora di dover risolvere il conflitto facendo prevalere la disciplina».
Contro di lui, Vasilij Ivanovič Čujkov, quarantadue anni, figlio di contadini, amante degli scacchi, delle letture e della buona tavola, deciso e intelligente, che sa quello che vuole: «Se rischi la pelle salvi quella di molti combattenti», dice, ed è pronto a pagare: «O terremo la città o moriremo qui».
Pensa di lui Paulus: «Non è un militare, è uno stregone». I biografi lo descrivono «ambizioso, pieno di talento strategico, intrepido e incredibilmente tenace». Comanda la LXll Armata, e ha alle spalle, come consigliere politico, un vecchio comunista, Nikita Sergeevič Chruščëv.
Cambia di continuo le regole: i tedeschi preferiscono combattere durante il giorno, e lui gli impone la notte, amano lottare nelle vie, e lui le lascia deserte. Lancia nel corpo a corpo i siberiani, armati di coltelli finlandesi e di pugnali, mobilita cinquantamila civili e forma la Difesa Popolare, tremila ragazze diventano ausiliarie e infermiere, i giovanetti del Komsomol vanno al fronte, perché il fronte è ovunque. Dalla fabbrica di trattori Gerginksij escono carri armati, e vanno subito in linea, senza vernice, senza strumentazione ottica, con equipaggi formati dagli stessi operai che li hanno costruiti. Nello stabilimento «Barricata rossa» si producono cannoni: che appena fuori dai reparti, sono in postazione e sparano.
Novembre, maledetto novembre per l'Asse: quante batoste. Montgomery, a El Alamein, batte Rommel; Eisenhower sbarca in Africa occidentale e marcia su Tunisi; Hitler parla ad antichi camerati, quelli della birreria di Monaco, di ciò che sta accadendo a Stalingrado, e promette:«Nessuna potenza al mondo riuscirà a sloggiarci di là».
Immagina manovre dai simboli fascinosi e carichi di minacce: «Colpo di tuono», «Tempesta invernale», ma la pioggia, il nevischio, la nebbia ghiacciata segnano le ore della sconfitta.
Von Manstein, la mente più sottile tra gli strateghi della Wehrmacht, promette: «Faremo tutto il possibile per liberarvi», e Paulus ancora si illude di farcela; e una settimana prima della caduta ordina: «Radunare le ultime forze per resistere fino al cedimento dei russi».
Trecentomila uomini sono chiusi nella sacca: ma la fame e i proiettili li distruggono. Non si distribuisce quasi più il rancio, non ci sono bende per curare i feriti, si insegna a cucinare la carne dei pochi cavalli rimasti. Già il 22 novembre un marconigramma di Paulus informa l'Oberkommando: «Carburante quasi esaurito. Situazione munizioni precaria. Viveri solo per sei giorni».
Dagli altoparlanti arriva la voce di Ulbricht che esorta a deporre le armi, e viene diffuso un manifesto coi versi del poeta comunista Becher, uno dei rifugiati a Mosca: «Nel sogno il volantino gli parlò: non ti succederà nulla di male I Il pezzetto di carta lo prese per mano I Io conosco bene questo paese So dove andiamo».
Il 31 gennaio, la strada la imparano anche centomila soldati che hanno ubbidito agli ordini del Führer, e vanno verso la prigionia. Tra loro, quasi diecimila rumeni. Una fila senza fine di straccioni e di malati.
L'ultimo aereo ha decollato da Gurmak il 23: lo pilota il luogotenente Krause, ha undici feriti a bordo e il timone di profondità in avaria. Sul limite del campo, sono raccolti migliaia di disgraziati che vengono abbandonati al loro destino.
Nel cielo splendente di sole, i russi fanno sfilare una parata aerea, trentacinque bombardieri formano la stella sovietica. Hanno sbigottito con la loro caparbietà, con la loro «pazzia» il nemico; ora sentono che comincia la marcia verso Berlino «Perfino dopo morti», ricorda il colonnello Adam «restavano avvinghiati al volante dei carri armati distrutti».
Gli ultimi momenti del dramma dei soldati tedeschi a Stalingrado.
Dei 320.000 tedeschi di Stalingrado, 140.000 sono morti per ferite ricevute in combattimento, fame, freddo, malattie, 20.000 dispersi, 70.000 feriti evacuati prima e dopo la sacca. I superstiti 90.000 lasciano in mano ai russi 750 aerei, 1550 carri armati, 480 autoblindo, 8000 cannoni e mortai, 60.000 autocarri e 235 depositi di munizioni e partono per i campi di prigionia della Siberia.
Fra loro vi sono 2500 ufficiali, 23 generali ed un feldmaresciallo: torneranno in soli 5000, meno del 2 per cento. Alle 14.46 del 2 febbraio un aereo tedesco da ricognizione sorvola a grande altezza la città e trasmette questo messaggio «A Stalingrado, nessun segno di combattimento».
Sandro Pertini
Alessandro Pertini ha 47 anni quando, il 25 luglio 1943, cade Mussolini e più di 13 ne ha trascorsi in carcere o in domicilio coatto. Nel '68 diventa presidente della Camera e nel 1978, ottantaduenne, capo dello Stato. Nel corso del settennato ottiene grande prestigio e uno straordinario consenso popolare.
Questo è il racconto di Pertini Alessandro, del fu Alberto e di Muzio Maria, avvocato, socialista, confinato politico nell'isola di Ventotene.
25 luglio 1943: come vissero quel giorno
«Domenica 25 luglio: una serata come tutte le altre. Quando la radio diede il comunicato ci avevano già rinchiusi nel camerone. Eravamo più di settecento, nella stragrande maggioranza comunisti: Longo, Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, Secchia. Poi c'erano Ernesto Rossi e Riccardo Bauer del Partito d'Azione, e anche degli anarchici, gente che veniva dalle prigioni, naturalmente, che aveva fatto la guerra in Spagna, che era stata nei campi di concentramento francesi.
Alcuni di noi, ritenuti "pericolosissimi", godevano di un trattamento speciale: venivano sorvegliati a vista. La mattina del 26 notai che i militi che avevano la consegna di pedinarmi erano costernati. Un agente gridò: "C'è una comunicazione importante: tutti in piazza". Era lì che ci riunivano per l'appello; quando veniva letto il nostro nome bisognava rispondere "Presente". Una guardia non seppe star zitta, e si lasciò scappare una notizia che aspettavamo da vent'anni: "Hanno arrestato Mussolini".
Scoprimmo così che c'era un nuovo governo, presieduto dal maresciallo Badoglio, che la guerra continuava. Scoppiò un applauso, ma non si videro scene di esultanza clamorose; il sentimento che prevalse fu un senso di angoscia per quel che ci aspettava: una eredità fallimentare.
Presi subito contatto con alcuni compagni: "Se non stiamo attenti," dissi "può accadere qualcosa di grave". Costituimmo un comitato, ne facevano parte, ricordo, anche un albanese, che fu ucciso al ritorno in patria, e un libertario, Giovanni Damaschi, impiccato poi durante la lotta partigiana.
Chiedemmo di essere ricevuti dal direttore della colonia penale, il commissario Guida, che diventò poi questore di Milano. Lo trovammo nel suo ufficio, era pallido, nervoso, aveva già fatto togliere il ritratto del duce. Gli spiegai che da quel momento era il comitato che comandava, e lui doveva collaborare con noi, e come primo gesto, come prima prova di conversione, era opportuno che impartisse l'ordine alla Milizia smetterla di tenerci dietro, e quei giovanotti avrebbero fatto anche bene a togliersi la camicia nera e i distintivi e le cimici come le chiamavamo. Il dottor Guida poteva, saggiamente per evitare inconvenienti, incorporarli nell'Esercito. Gli chiedemmo di far presente, con forte urgenza, al ministero dell'Intemo, che c'era una logica conseguenza dei fatti: dovevamo essere tutti liberati e senza troppe formalità [...].
Il tempo, nell'attesa, passava lentamente, continuava ad arrivare il battello che partiva da Gaeta e trasportava i rifornimenti, la posta, i giornali; quando doveva sbarcare bestiame non c'era attracco, lo buttavano in acqua, con forti urla lo spingevano alla riva.
Vedemmo arrivare anche una corvetta, che gettò l'ancora in una insenatura. A bordo c'era Mussolini. Scesero dei funzionari della Sicurezza, e avevano già deciso: lo avrebbero scaricato lì, ma ad un tratto si imbatterono in un ufficiale tedesco. Chiesero a Guida cosa ci stava a fare e così seppero che sulla costa c'era una batteria antiaerea, con cento soldati. Allora pensarono di cambiare rotta. Non tenevano in alcun conto la nostra presenza e il rischio che comportava. Andammo subito dal direttore per fargli presente il pericolo; ci disse: "So perché siete venuti, ma state tranquilli. Lo hanno già portato a Ponza".
«Lo misero nella casa dove lui aveva fatto alloggiare Ras Imerù, l'abissino che aveva guidato le truppe del Negus e che, dopo la sconfitta, rifiutò di sottomettersi. Era un uomo pieno di dignità, alto, severo, portava un lungo mantello nero.
«Mussolini io lo vidi dunque una sola volta: all'arcivescovado di Milano, nell'aprile del 1945, lui scendeva le scale, io le salivo. Era emaciato, la faccia livida, distrutto [...].
Ed ecco il fausto momento: partì finalmente il primo veliero, ci furono molti abbracci, e quelli che se ne andavano stavano aggrappati alle sartie per salutarci, e noi eravamo lì sul molo, quelli sventolavano i fazzoletti, c'era un confinato che aveva portato con sé il bombardino, lo aveva salvato nelle trincee delle Asturie, nei campi di Vichy, attaccò l'Inno di Mameli e noi ci mettemmo a cantare, con passione, con ira, "va fuori d'Italia", e quelli della Wehrmacht, che capivano, ci fissavano cupi [...].
Un giorno il direttore mi mandò a chiamare: "Ho una bella novità per voi. E arrivato un telegramma che dispone per la vostra liberazione". Grazie, dissi. Però non me ne vado finché qui resta uno solo di noi. Ma Camilla Ravera, che diede sempre prova di una straordinaria forza morale, Terracini e altri, mi convinsero che dovevo partire, per andare a perorare la causa dei detenuti, così non diedi pace a Senise, Capo della Polizia, e a Ricci, che era agli Interni, li andavo a trovare ogni giorno con Bruno Buozzi. Erano restii, avevano nei confronti dei comunisti paura e odio. Minacciammo uno sciopero generale, e l'argomento li convinse. Quando arrivò l'ultimo di Ventotene, potei andare a trovare mia madre. Era molto vecchia e mi attendeva. Stava sempre seduta su un muretto che circondava la nostra casa. "Che cosa fa, signora?" le domandavano. "Aspetto Sandro", rispondeva. Poi rientrai nella capitale. Ero diventato, con Nenni, con Saragat, membro dell'esecutivo del partito e con Giorgio Amendola e Bauer facevo parte della Giunta Militare.
Venne l'8 settembre e fui a Porta San Paolo, c'erano anche Longo, Lussu e Vassalli, e gli ufficiali dei granatieri sparavano e piangevano: "Il re ci ha lasciati, il re ci ha traditi”. Vittorio Emanuele III e Badoglio fuggivano verso Pescara, i tedeschi si preparavano a liberare Mussolini, cominciava un'altra triste e lunga storia».
Bibliografia
Enzo Biagi - la Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1990
Giovanni Emilio Diligenti: partigiano in Brianza (parte III)
Nei Gap (Gruppi di azione patriottica) a Milano
«A Milano rimasi fino al marzo 1944 militando nei Gap, che erano i nuclei clandestini per eccellenza. Ogni Gap era composto da tre o quattro uomini; solo il comandante era collegato col comando dei Gap esistente in città.
Le precauzioni cospirative erano ferree e scrupolosamente rispettate: io e mio fratello venivamo presentati da Parodi come suoi cugini di Ovada, suo paese di origine, a tutti i militanti antifascisti con cui avevamo occasione di incontrarci. Avevamo inoltre documenti falsi, da cui non potevamo risultare renitenti alla leva o sbandati dopo l'armistizio. Aldo aveva veramente i diciott'anni risultanti dai documenti e, quanto a me, la corporatura minuta e il viso, ancora da ragazzino, convincevano anche le guardie fasciste che talvolta mi fermavano della veridicità di quei diciassette anni assegnatimi dai nostri falsificatori.
Fra le azioni compiute dai Gap, ne ricordo in particolare una per un pericoloso incidente che si verificò. Erano i primi giorni di marzo e si stava svolgendo in tutt'Italia il grandioso sciopero generale proclamato dal CLNAI. Era necessario appoggiare, con atti di sabotaggio, lo sciopero dei tranvieri per cui Parodi, mio fratello e io ricevemmo l'ordine di far saltare con la dinamite gli scambi dei tram di piazzale Loreto.
Avevamo avuto quattro tubi di dinamite, numerati, appositamente preparati dai nostri artificieri per esplodere simultaneamente. Senonché, mentre stavamo innescando il terzo, uno dei due tubi già sistemati esplose all'improvviso. In fretta innescammo le due ultime cariche e via a gambe levate, verso il laboratorio di Parodi, a 300 metri da piazzale Loreto. Ancor oggi non riusciamo a spiegarci cosa fosse accaduto.
Durante la permanenza da Parodi presi parte a qualche altra azione: disarmo di fascisti che a sera inoltrata si trovavano isolati per le strade; affissione di volantini e manifesti antifascisti; lancio di chiodi a tre punte costruiti in modo particolare perché, comunque cadessero per terra, una punta rimaneva sempre rivolta verso l'alto e quindi, penetrando nelle ruote degli automezzi tedeschi e fascisti, ne faceva scoppiare il pneumatico. Ebbi anche l'occasione di conoscere alcuni antifascisti milanesi amici di Parodi, fra i quali, in particolare, Giovanni “l'infermiere” che veniva per curare Parodi e approfittava dell'occasione per farci delle vere lezioni di antifascismo. Conosceva bene la storia del movimento operaio e delle sue lotte perché era stato anche lui “all'università degli antifascisti”, cioè in carcere. Oltre a lui, conobbi in quel periodo Tino Camera, Tonino Abba e altri».
La costituzione della Divisione “Fiume Adda”
«La mia esperienza gappista ebbe termine alla fine di marzo, quando il partito mi mandò di nuovo in Brianza per preparare la costituzione delle Sap (Squadre di azione patriottica), che formeranno in seguito le Brigate Garibaldi inquadrate nella Divisione “Fiume Adda”.
I tempi erano ormai maturi per intensificare la lotta armata anche in pianura. Nei primi mesi del 1944 il movimento partigiano era una forza reale, radicata nella popolazione e gli stessi Alleati erano costretti a riconoscerlo. Le “missioni” paracadutate dal Comando alleato scoprirono un'Italia nuova, con valli libere e organizzate, con migliaia di uomini armati, con migliaia di caduti. I partigiani c'erano e combattevano seriamente contro i nazi-fascisti. Strappando loro le armi, avevano meritato quelle degli .anglo-americani. Le richieste dei partigiani agli Alleati erano sempre le stesse: armi, e la prova del fuoco per gli uomini. Contemporaneamente, la Resistenza si organizzava anche sul piano politico; sorgevano dovunque i Comitati di liberazione nazionale, espressione dei partiti antifascisti. Nei primi mesi del 1944 si stavano intensificando anche le lotte operaie, che si esprimevano non solo con gli scioperi, ma pure con ripetuti atti di sabotaggio alla produzione bellica.
In questo quadro si inseriva la necessità di estendere la guerriglia anche in pianura, affiancandola e coordinandola alle lotte operaie. Occorreva attaccare le vie di comunicazione (strade, ponti, linee ferroviarie) e compiere azioni contro i reparti nazi-fascisti nei paesi, nei loro posti di ritrovo e di transito, nelle loro caserme.
Venni dunque inviato in Brianza dal Comando delle Brigate d'assalto Garibaldi per costituirvi i primi distaccamenti delle Sap; ricevettero lo stesso incarico mio fratello, Giordano Cipriani (“Bassi” Contardo Verdi, Andrea Galliani e Mascetti.
Prendemmo dapprima contatto a Monza con i compagni Rinaldo Vegetti e “Comin”, che ci ospitarono per qualche giorno nella loro stalla alla cascina San Bernardo, in viale Libertà. Poi Vegetti ci accompagnò a Concorezzo dal compagno Casiraghi, un artigiano generoso e coraggioso. Egli non esitò un attimo ad accoglierci in casa sua, ben sapendo il grave rischio cui andava incontro unitamente alla sua famiglia. Iscritto al Pci dal 1921, era originario di Burago Molgora, un centro rosso della Brianza Vimercatese. In casa sua passavano molti partigiani e molti appartenenti all'organizzazione clandestina. Veniva Albertino Paleari a ritirare la stampa clandestina del Pci che giungeva direttamente a Concorezzo da Milano; da Trezzo d'Adda veniva con lo stesso compito Luigi Radaelli (“Gigio”). Casiraghi aveva ospitato per due notti anche Ferrari, prima della sua partenza per la Val Grande. Facendo “visite” saltuarie in casa Casiraghi (di volta in volta eravamo a Vimercate da Levati, a Ornate da Berto Gilardelli, a Cavenago da Fumagalli, “Zobi” e altri, a Burago da “zio Modesto”, a Gorgonzola, ecc.), ci mettemmo subito al lavoro. I documenti falsi, indispensabili a causa dei nostri frequenti spostamenti, ci venivano forniti anche dalla figlia di Casiraghi, Iride, una ragazzina di diciassette anni che dopo la Liberazione diventò mia moglie. Iride lavorava alle poste ed ebbe così modo di conoscere un impiegato del Comune, da cui si procurava le carte d'identità false.
A Concorezzo, in casa del compagno Rurali, vicino. alla Roggia Ghiringhella, installammo il Comando della 103aBrigata Garibaldi; il Comandante era Verdi (“Ciro”), il vice-comandante io, il vice-commissario mio fratello Aldo.
Iniziammo il raggruppamento delle squadre di distaccamenti. Vennero costituiti quello di Vimercate (comandante: Igino Rota), Concorezzo (comandante: Adriano Radaelli; commissario: Ottorino Cereda), Brugherio (comandante: Nando Mandelli), Cavenago (Comandante: Mario Fumagalli), Trezzo, Arcore, Bernareggio, Caponago, Omate, Ornago, Rossino.
Non era soltanto un'attività organizzativa. Man mano che si formavano i distaccamenti si agiva, si effettuavano azioni di guerra: disarmo di fascisti; assalti notturni alle caserme e ai posti di blocco; sabotaggi alle linee ferroviarie e lancio sulle strade di chiodi a tre punte; blocchi e attacchi a convogli tedeschi e fascisti sull'autostrada Milano-Bergamo, In un'operazione di quest'ultimo tipo rimase ferito Tommaso Crippa (“Maso”) del distaccamento di Concorezzo; fu portato all'ospedale di Vimercate dove, curato e protetto da medici e suore appartenenti alla Resistenza, dovettero amputargli una gamba.
Il primo distaccamento che si costituì fu quello di Vimercate, dove alcuni “vecchi” antifascisti (Frigerio, Scaccabarozzi, Galbusera e altri ancora) avevano già riorganizzato le file del movimento clandestino, nel quale era entrato un giovane deciso e coraggioso, di poche parole, ma efficaci e precise: Igino Rota. Fu lui a informare il Comando dell'esistenza a Vimercate di alcuni giovani disposti a combattere; occorreva però organizzarli e armarli. La loro base era il cascinale del “Mancino”, a poca distanza dalla provinciale Milano-Trezzo-Bergamo.
Io stesso consegnai un pomeriggio a Rota due mitra Beretta calibro 9, dopo averli portati a Vimercate avvolti in un sacco legato sulla canna di una bicicletta. In poco tempo si formò il distaccamento, comandato da “Acciaio”, lo pseudonimo assunto da Rota.
Gli altri componenti erano: Mario Cazzaniga, Emilio Cereda, Pierino Colombo, Carlo Levati, Aldo Motta, Renato Pellegatta, Luigi Ronchi, Verderio e infine mio fratello Aldo e io. Consideravamo componente del distaccamento anche Enrico Assi, un giovane sacerdote di Vimercate, oggi vescovo.
Parecchie furono le azioni compiute dal distaccamento di Vimercate, al quale il Comando affidava quasi sempre le imprese più impegnative e rischiose. Sabotaggi alla linea ferroviaria Milano-Lecco-Sondrio, attacchi alle colonne nazi-fasciste, in particolare sull'autostrada Milano-Bergamo e sulla statale 36, disarmo di soldati nemici, recupero di armi. Ma le operazioni più importanti furono gli attacchi alla caserma della G.N.R. di Vaprio d'Adda e al campo di aviazione di Arcore».
Gli attacchi alla caserma della G.N.R. di Vaprio d'Adda e al campo di aviazione di Arcore
«L'azione di Vaprio, svoltasi il 6 ottobre 1944, fu compiuta dal distaccamento di Vimercate assieme a reparti della 119aBrigata Garibaldi, che operava nella Brianza Occidentale al comando di Alberto Gabellini (“Walter”).
Travestiti da fascisti, di notte, disarmammo la ronda mentre stava uscendo da un caffè nel centro del paese; portammo i tre fascisti catturati alla loro caserma e li costringemmo, sotto la minaccia delle armi, a dire la parola d'ordine alla guardia che s'era affacciata allo spioncino. L'improvvisa irruzione di una decina di partigiani sorprese i militi fascisti che stavano mangiando, ignari e incapaci di immaginare che i partigiani potessero osare tanto. Dopo pochi attimi i fascisti, una quindicina, erano a mani in alto addossati al muro, pieni di paura. Avevamo ricevuto ordini precisi, in base ai quali dovevamo giustiziare il comandante lasciando liberi tutti gli altri fascisti. Ebbene, quando i nostri compagni scovarono il brigadiere che comandava la caserma, il “bandito” Gabellini non fu capace di eseguire l'ordine. Si accontentò di assestargli un poderoso calcio nel sedere e di ammonirlo: «Non farti incontrare un'altra volta sulla mia strada».
“Walter” sarà fucilato a Pessano il 9 marzo 1945 assieme ad altri sei partigiani (Angelo Barzago, Romeo Cerizza, Claudio Cesana, Dante Cesana, Mario Vago, Angelo Viganò). Catturati in seguito a una spiata, i sette “banditi”, come venivano chiamati i partigiani dai fascisti, furono condannati a morte. Una ricerca condotta dal Comitato Antifascista di Pessano così ricostruisce la loro morte: «I sette partigiani vengono lasciati sul carro tutto coperto. Luigi Gatti, gerarca di Monza, legge la sentenza di morte: i banditi sono rei confessi di appartenere al movimento insurrezionale; di aver svolto attività terroristica e rapine a mano armata. Poi il Maggiore Wernik dà ordine di affiggere ai muri di Pessano il manifesto della incriminazione e fucilazione. Alle ore 17,45 viene gridato l'ordine di procedere, il carrozzone parte seguito da una macchina berlina. Il corteo passa per le vie Vittorio Veneto, Vittorio Emanuele e Monte Grappa fermandosi davanti a casa Colombo. Luigi Gatti fa allineare gli altri contro il muro. Sulla riva del torrente Molgora due fascisti con il loro Mab spianato sono già pronti a sparare. Alle ore 18.00 due violente raffiche di mitra lacerano l'aria. È testimoniato che tra la prima e la seconda raffica Gabellini, il famoso Walter, ha il tempo di gridare: «SPARATE SU DI ME, VIGLIACCHI, NON SU QUESTI RAGAZZI». Vago, Mario, Cesana, Cerizza e altri riescono a sussurare: «VIVA L'ITALIA! VIVA I PARTIGIANI!». Poi i sette corpi cadono a terra».
Così morì “Walter” che, iscritto da tempo al Pci, aveva conosciuto per alcuni anni le galere fasciste per la sua attività e, pur combattendo coraggiosamente, non si sentiva di odiare nessuno. La 103a Brigata Garibaldi aveva assunto il nome di suo padre, Vincenzo, ucciso e pugnalate dai fascisti e abbandonato in una roggia a Cambiago, nel 1921.
Igino Rota morì durante un'azione al campo d'aviazione di Arcore. La sera del 20 ottobre 1944 il distaccamento che lui comandava si riunì nella base per studiare in tutti i dettagli l'attacco all'aeroporto, avvalendosi delle preziose informazioni fornite dai CLN di Arcore e di Vimercate. Stabilito il piano, verso le dieci di sera, sei partigiani, travestiti da repubblichini e armati di mitra, si incamminarono in fila indiana lungo il bordo della strada provinciale Oreno-Arcore, avvicinandosi all'aeroporto.
Gli altri componenti del distaccamento e un gruppo di giovanissimi patrioti del Fronte della gioventù si diressero verso l'obiettivo attraverso i campi.
I sei partigiani fecero irruzione nella sede del corpo di guardia, immobilizzando le dieci sentinelle fasciste. Tagliati i fili del telefono e lasciato un garibaldino di guardia, il gruppetto si ricongiunse con gli altri partecipanti all'azione e tutti insieme si diressero verso gli hangar. Le torce elettriche illuminarono cinque aerosiluranti tipo Savoia Marchetti 79, pronti a spiccare il volo per le loro missioni di morte. Dopo aver ammucchiato intorno agli apparecchi bidoni di olio lubrificante, fusti di benzina, bombole di acetilene e di ossigeno e tutto il materiale infiammabile che riuscimmo a scovare, lanciammo alcune bottiglie “molotov”.
Ormai lontani, nei campi, sentimmo violente esplosioni e scorgemmo bagliori accecanti che illuminavano l’obiettivo della nostra azione. L'operazione, conclusasi con la distruzione di tutti gli aerei, meritò una citazione solenne da parte del Comando di Divisione e venne menzionata anche nel corso del notiziario trasmesso dr Radio Londra.
Due mesi dopo, il 29 dicembre 1944 il distaccamento decise di ripetere l’attacco. Si unirono a noi alcuni partigiani del Fronte della gioventù e della 13a Brigata del Popolo, la formazione dei cattolici vimercatesi guidata da Felice Sirtori. Ci dividemmo in due squadre: la prima, al comando di “Acciaio”, doveva disarmare la ronda forzare l'ingresso nel campo e infine catturare tutti i militi del presidio; a questo punto sarebbe entrata in azione la seconda squadra, guidata da Carlo Levati, con il compito di distruggere gli apparecchi.
Stava già concludendosi la prima fa e dell'attacco quando un banale incidente fece fallire l'operazione, causando la morte di Igino Rota. L'ultima sentinella, disarmata davanti alla sede del presidio, riuscì a dare l'allarme, cosicché la sorpresa non fu completa. Nello scontro con i fascisti, il comandante del distaccamento fu abbattuto da una raffica di mitra. Immediatamente iniziò una furibonda sparatoria. I militari fascisti non ancora catturati erano asseragliati nella palazzina del comando e da qui sparavano a zero con tutte le armi automatiche a loro disposizione; noi rispondevamo al fuoco, nel disperato tentativo di recuperare il corpo del nostro comandante, essendo ormai impossibile concludere l'operazione prefissata. Tutto, però, fu inutile, perché il nostro armamento era inferiore e inoltre eravamo in una posizione precaria, in mezzo al campo, illuminato dalla luna piena, assolutamente allo scoperto. Fu perciò necessario ritirarsi, lasciando in mani fasciste il corpo di Rota. Le perdite del nemico non furono mai comunicate ufficialmente ma, da notizie raccolte dai CLN di Arcore e di Vimercate, risultò che almeno dieci furono i fascisti messi fuori combattimento.
Purtroppo, il triste bilancio dell'azione non si limitò alla perdita di “Acciaio”: identificato il caduto, divenne facile per i fascisti, aiutati da una spia del luogo, risalire alla cerchia di conoscenti e amici di Rota. Perquisizioni, arresti, interrogatori, minacce e lusinghe ai familiari portarono alla cattura di una parte dei componenti il distaccamento nella notte tra l'1 e il 2 gennaio 1945, poche ore prima che ci si ritrovasse per spostarci in un'altra zona e sottrarci alle ricerche. Riuscirono a sfuggire all'arresto solamente pochi partigiani, tra cui Carlo Levati, che si lanciò seminudo dalla finestra al primo piano della sua abitazione e percorse a piedi nudi otto chilometri nei campi ricoperti di neve, prima di trovare rifugio nella base di Cavenago.
Arrestati, interrogati, torturati, i giovani patrioti vennero poi rìnchiusi nelle carceri milanesi di San Vittore. Qui, la mattina del 2 febbraio, sfogliando il “Corriere della Sera” i familiari che attendevano davanti al portone per consegnare ai loro cari viveri e capi di vestiario appresero la tremenda notizia: Cereda, Colombo, Motta, Pellegatta e Ronchi erano stati fucilati alle quattro del mattino nello stesso aeroporto di Arcore che aveva visto le loro imprese.
Il tribunale fascista di Milano che aveva emesso la sentenza condannò a trent'anni di carcere, data la minore età, altri quattro giovanissimi patrioti, appartenenti al Fronte della gioventù, che vennero liberati dai partigiani il 25 aprile. Anche don Enrico Assi, in due riprese, e Felice Sirtori furono arrestati; in particolare, il comandante della 13a Brigata del Popolo fu torturato a lungo nelle carceri di Monza, ma i fascisti non riuscirono a strappargli né un nome né un'informazione e furono così costretti a rilasciarlo dopo alcune settimane.
Fu un momento terribile per la 103a Brigata Garibaldi: alla perdita di compagni con cui avevamo condiviso rischi, trepidazioni, gioie e dolori, si aggiungeva la dissoluzione del distaccamento di Vimercate, il più attivo della Brigata. Coloro che riuscirono a sottrarsi alla cattura si diedero alla macchia, mentre io fui inviato nella 105aBrigata, sempre in qualità di vice-comandante. Rimasi nel distaccamento di Gorgonzola fino alla liberazione, che era ormai vicina».
Alla fine della guerra, smessi i panni del partigiano, Emilio Diligenti cominciò subito la sua attività come segretario della Camera del Lavoro di Lissone e dopo qualche tempo fu eletto Consigliere comunale della nostra città. In seguito fu Consigliere provinciale e quindi Assessore. Nel 1981 fu premiato dalla Provincia di Milano con il premio Isimbardi per aver “costantemente lottato per la progressiva attuazione degli ideali di giustizia sociale, unendo alle capacità di iniziativa dinamica e realizzatrice, l’interesse per la storia della Brianza”. Emilio Diligenti ci ha lasciato un importante libro sulla storia del nostro territorio, scritto con l’amico giornalista Alfredo Pozzi, dal titolo “La Brianza in un secolo di storia italiana (1848-1945)”.
La nostra Sezione A.N.P.I. di Lissone è a lui intitolata.
Giovanni Emilio Diligenti: partigiano in Brianza (parte II)
Le prime azioni partigiane nel lecchese, nel varesotto e a Milano
«L'8 settembre cominciò la guerra partigiana. Gianni Citterio parlò ai monzesi dal balcone del municipio in piazza Carducci. Si raccolsero adesioni alla “guardia nazionale”. Un gruppo di antifascisti riuscì a impadronirsi delle prime armi presso la caserma Pastrengo.
lo non fui diretto testimone di quegli avvenimenti, poiché mi trovavo a Cremona dov'ero stato chiamato 15 giorni prima a prestare il servizio militare. Ero in un reparto di artiglieria e l'8 settembre il comandante della mia batteria decise di non capitolare senza combattere; con una ventina di altre reclute sparai sui tedeschi sino a mezzogiorno.
Poi la resa e il campo di concentramento a Mantova, in cui rimasi per poco tempo. Fuggii con altri compagni da un tunnel che portava al Mincio e tornai a Monza.
Mi incontrai subito con Ferrari, nella casa di suo fratello Luigi, in via Pallavicini, ed esaminammo insieme la situazione. L'occupazione tedesca si era già consolidata. A Monza riprese la sua feroce attività il famigerato squadrista Luigi Gatti, detto Gino, responsabile di numerosi omicidi a partire dal 1920.
Ferrari decise infine di unirsi alla formazione partigiana dislocata al Pian dei Resinelli. Non era giovane come me, che non avevo ancora vent'anni; lui ormai ne aveva 48, eppure, senz'alcuna esitazione, stabilì di intraprendere la dura e pericolosa vita del partigiano, in montagna. Presa la decisione, partimmo subito, la mattina seguente, all'alba. Alla stazione di Lecco c'era ad aspettarci il compagno “Farfallino” (poi fucilato dai fascisti), che ci accompagnò alla Capanna Stoppani, dove aveva la sua base la “banda” partigiana e dove trovammo altri antifascisti brianzoli.
La zona montana in cui erano dislocati i reparti partigiani era di considerevole importanza strategica: vi passavano le statali dello Spluga e dello Stelvio, vie di transito per la Svizzera, e la ferrovia della Valtellina. Si può pertanto capire la preoccupazione del comando tedesco, che fece affluire nella zona due battaglioni di alpini germanici di stanza a Bassano del Grappa, dando inizio il 17 ottobre a un vastissimo rastrellamento.
Partendo da Mandello, da val Calolden, da val Grande e dalla rotabile del Lario, i tedeschi, dopo aver bloccato i centri abitati, tentarono di accerchiare i reparti partigiani, che ebbero però l'ordine di ripiegare per far fallire il tentativo nemico di eliminare con un'unica, grandiosa operazione tutte le forze partigiane dalla bassa Valtellina alla Bergamasca. Infatti, ripiegammo lentamente, sparando con parsimonia, a colpo sicuro, e ingaggiando talvolta brevi ma violentissimi combattimenti per permettere lo sganciamento di altri gruppi. Il 18 ottobre, per esempio, il gruppo “Grassi” di Campo de' Boi e la formazione “Stoppani” costrinsero i tedeschi a ripiegare a valle in seguito alla vittoriosa resistenza opposta all'Alpe di Cassin, Balisio e nella zona di Pasturo.
Il giorno successivo si ebbero altri scontri alla Bocchetta di Erna, a Campo de' Boi, a Costa Balasca e al Passo del Fo'. Il 20 ottobre, quarto e ultimo giorno della battaglia, nuovi combattimenti si ebbero a Cascina Stoppani, a Cascina Monzese e a Cascina Grassi. Lo stesso giorno i partigiani completarono l'operazione di sganciamento, dirigendosi a piccoli gruppi verso il Nord, mentre i reparti tedeschi sfogavano la loro rabbia incendiando case, baite, fienili, e imprigionando un centinaio di civili accusati d'aver aiutato i partigiani. Tra i tedeschi si ebbero 11 morti e 32 feriti, tra i partigiani 4 morti, 5 feriti, 20 prigionieri - quasi tutti ex-prigionieri di guerra Alleati -. Da notare che nessun partigiano armato era stato catturato dal nemico.
Mi aggirai su quelle montagne assieme ad altri otto compagni, per tre giorni e due notti; i pastori ci informavano dei movimenti delle truppe tedesche, aiutandoci a sfuggire alle loro ricerche. Infine a Brivio trovammo un barcaiolo che ci traghettò sull'altra sponda dell'Adda, contentissimo di aiutare coloro che si battevano contro “quei cani di tedeschi e di fascisti”. Costeggiando la statale N° 36, io e mio fratello Aldo raggiungemmo a piedi Usmate e da lì Cavenago, roccaforte antifascista e base partigiana. Ci rifugiammo in casa del compagno Raineri Fumagalli, in attesa di riprendere i contatti con l'organizzazione clandestina. Ferrari non era con noi, perché qualche giorno prima del rastrellamento era sceso a Lecco per partecipare a una riunione del locale CLN, presieduta dal compagno Gabriele Invernizzi».
La battaglia sul San Martino
«Un mese dopo mio fratello e io partecipammo a un'altra battaglia, quella di S. Martino, dove ci aveva inviati l'organizzazione clandestina comunista. Nella fortezza di S. Martino, sopra Varese, si era stanziato il gruppo Cinque Giornate, costituito poco dopo l'armistizio dal colonnello Carlo Croce. La formazione era composta per lo più da ex-avieri ed ex-ufficiali, ma in seguito vi affluirono molti operai di Cinisello Balsamo e di Brugherio, inviati dall'organizzazione clandestina di Sesto S. Giovanni.
Il colonnello Croce e gli ufficiali che guidavano la formazione si dichiaravano genericamente “badogliani” e seguivano una linea “attesista”. Il reparto si era impossessato di una notevole quantità d'armi e di viveri con una serie di riuscite operazioni, come quella alla caserma della guardia di Finanza a Luino. Tutto era stato raccolto nella fortezza, che avrebbe dovuto diventare una base inespugnabile da cui sarebbe partita, in concomitanza con l'arrivo delle truppe alleate, la decisiva offensiva contro i nazi-fascisti.
Inutilmente Gianni Citterio, inviato dal CLNAI, cercò di convincere il colonnello Croce della necessità di dislocare le forze partigiane - circa centocinquanta uomini - in gruppi meno numerosi e più mobili, localizzati in diversi punti strategici. Prevalse purtroppo la mentalità degli ufficiali, illusi di aver creato una base inattacabile.
Lo sbaglio fu pagato a caro prezzo: il 14 novembre più di duemila tedeschi mossero all'attacco, appoggiati da cannoni, mortai e anche da tre Stukas. La resistenza durò quarantotto ore, al termine delle quali il gruppo Cinque Giornate si disperse; la maggior parte dei suoi componenti si rifugiò in Svizzera. I partigiani morti in combattimento furono appena due, mentre trentasei furono fucilati dopo la cattura. Ben più pesanti le perdite nemiche: duecentoquaranta morti e un apparecchio (fui testimone oculare dell'abbattimento dello Stukas: un partigiano robustissimo, un vero gigante, prese sulle spalle una delle dieci mitragliatrici Breda pesanti di cui era fornito il reparto, fungendo da piazzola semovente; due altri sostenevano i piedi della mitragliatrice e un quarto sparava, finché riuscì a colpire l'aereo.
La difesa ad oltranza della posizione, concezione che esulava da una corretta conduzione della guerriglia, aveva sì provocato gravissime perdite tra le truppe attaccanti, ma aveva anche causato la fine di una formazione che, per la qualità e la quantità di mezzi e di uomini, avrebbe potuto rappresentare una grossa spina nel fianco dei nazi-fascisti per ancora molto tempo. Durante la battaglia fui ferito alla gamba destra: la pallottola mi fu estratta con un paio di forbici da don Mario Limonta, un sacerdote di Concorezzo che fungeva da cappellano e dal medico del gruppo. Di notte, don Limonta cercò di guidare me ed altri sei partigiani feriti nella discesa verso la pianura. L'impresa mi riuscì difficile, perché la ferita mi impediva di camminare, cosicché mio fratello Aldo dovette caricarmi sulle sue spalle. Dopo un po' perdemmo i contatti con gli altri feriti ma, sia pure a fatica, raggiungemmo la provinciale.
Attraversata la strada a una curva, procedendo un po' carponi e un po' sulle spalle di Aldo, arrivammo in un paese dove, all'alba, salimmo su un trenino che ci portò a Varese. Da qui in ferrovia a Saronno, poi in corriera a Monza e infine di nuovo a Cavenago. Nascosto in casa di Fumagalli, fui curato da Innocente e Mario, rispettivamente cugino e fratello di Raineri. In seguito, per ragioni di sicurezza e per curare meglio la ferita, fui trasferito a Milano dal compagno Giacinto Parodi. In via Padova al 26, Parodi aveva un laboratorio artigiano di guarnizioni, mentre la sua abitazione era al n° 40 della stessa via.
In casa di Parodi fui curato da un medico che mi guarì completamente. Ristabilitomi, l'organizzazione clandestina del partito mi inviò nuovamente nel Lecchese. Con Aldo e due compagni che abitavano in via Brembo a Milano (Lucio e il fratello minore di Chiesa) fummo ospitati per una settimana in casa di un compagno macellaio di Castello di Lecco e poi ci recammo sul “Prà Pelà” ad Airuno. Qui ritrovai Ferrari insieme a Chiesa (Leo) e a una decina di partigiani sovietici e jugoslavi “disertori” della Todt tedesca, che l'organizzazione clandestina di Monza aveva inviato in quella formazione. Più tardi ci raggiunse anche Livio Cesana di Biassono.
A gennaio venne a farci visita Gianni Citterio che, dopo aver discusso coi comandanti Ferrari e Chiesa, ripartì il mattino seguente, Fu l'ultima volta che vidi Citterio, che era ormai diventato uno dei massimi esponenti del Partito. La notizia della sua morte me la comunicò il dottor Casanova, nella farmacia al Ponte di via Lecco.
Ero sceso dalla montagna per prendere contatti con alcune nostre “basi” di pianura a Cavenago, Omate, Vimercate, Bernareggio, ecc. (bisognava predisporre l'organizzazione delle Brigate Sap), e per ritirare in farmacia una pomata a base di zolfo contro una fastidiosa malattia, la scabbia, da cui molti partigiani erano affetti.
La formazione del “Prà Pelà” non ebbe una vita molto lunga. Dopo una ventina di giorni arrivò un contadino trafelato, che ci avvisò che i fascisti erano giunti in forze in paese e si preparavano a salire. Ferrari e Chiesa decisero di sganciarsi subito, anche perché, ci dissero, Citterio aveva dato disposizioni in tal senso, tenuto conto del fatto che con noi vi erano i sovietici e gli jugoslavi, che dovevano essere inviati in altre località. L'intera formazione, sedici uomini in tutto, riuscì a eludere l'attacco nemico.
Soltanto Lucio, che si era slogato una caviglia alcuni giorni prima, fu catturato dai fascisti; lo avevamo nascosto in casa di un contadino, ma fu scoperto e arrestato, nonostante il contadino avesse spinto la sua solidarietà fino al punto di dichiarare che era un suo parente, sbandato dopo l'armistizio. Lucio fu inviato in un campo di concentramento tedesco. Intanto noi, passando attraverso i boschi, riuscimmo a raggiungere la pianura sul far della sera. Nascoste le armi nel fienile di un contadino appartenente all'organizzazione della Resistenza, a sera inoltrata, su un carro bestiame, viaggiammo fino alla stazione di Usmate-Velate. Poi, a piedi, camminando tutta la notte, arrivammo ancora a Cavenago, dove il compagno “Zobi” ci alloggiò nella sua stalla.
Rimanemmo a Cavenago alcuni giorni, finché l'organizzazione del partito inviò i sovietici e gli jugoslavi in montagna, Ferrari in Val Grande, io e mio fratello a Milano ancora da Parodi, i due fratelli Chiesa in altra località».
Giovanni Emilio Diligenti: partigiano in Brianza
In occasione del 25 aprile, 69° anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo, pubblichiamo una testimonianza di Giovanni Emilio Diligenti (1924–1998) sulla sua attività di resistente negli anni dal 1943 al 1945.
Il precoce contatto col mondo del lavoro e dell’antifascismo
«Sono nato a Milano nel 1924, ma dall'infanzia abitai a Monza. Ero maggiore di sei fratelli. Mio padre, ragioniere, proveniva da una famiglia piccolo borghese di Siena. Mia madre invece era di provenienza operaia e lavorò alla Magneti Marelli fino al 1930. Io feci a quattordici anni il mio ingresso in fabbrica. A sedici, e cioè nel 1940, venni assunto dal cappellificio Vezzani, dove lavoravo 15-16 ore al giorno come meccanico addetto alla manutenzione dei macchinari.
Il mio capo reparto era Amedeo Ferrari: non era un caso, anzi era stato lui a farmi entrare in quella fabbrica. Fin dalla più tenera età, infatti, ero cresciuto all'ombra del fondatore del Pci in Brianza.
La mia famiglia abitava in via Beccaria 13 e la nostra casa era attigua a quella dove Ferrari venne ad abitare nel settembre del 1929, dopo aver scontato i due anni di carcere a cui era stato condannato dal Tribunale Speciale.
Era inevitabile che dai Ferrari ci sentissimo quasi come nella nostra seconda casa, tanto più che il “vecchio” anche se metteva una certa soggezione, non era tipo da spaventarci, nonostante la sua alta statura e la sua faccia seria. Anzi, Ferrari esercitava un suo fascino su di noi, sia per il temperamento generoso che non poteva non manifestarsi anche verso i ragazzi, sia per il suo carattere profondamente umano.
Nel 1936 Ferrari si trasferì in via Amati 22 (corte Venturelli), al primo piano. Qui, si può dire, il movimento comunista brianzolo trovò la sua sede centrale, il suo punto di riferimento e di direzione. Non bisogna dimenticare, poi, che il 1936 fu l'anno delle guerre d'Etiopia e di Spagna.
Fu un periodo di intensa attività politica e organizzativa: i legami del “centro” di Monza col resto della Brianza si estesero notevolmente. Avevo dodici anni, ma ricordo di aver visto giungere nella casa di Amedeo Ferrari un gran numero di compagni e di antifascisti: da Cavenago Giovanni Frigerio, Felice Brambilla, Erba e Raineri, Fumagalli; da Caponago Besana e Brambilla; da Burago Casiraghi (“Lisandrin”); da Omate Davide Pirola, Giovanni Ronchi e Berto Girardelli; da Bernareggio, Tornaghi (“Piscinin”) e Stucchi (“Bersagliere”); da Concorezzo Domenico Cogliati e Casiraghi; da Vimercate Frigerio e Scaccabarozzi.
Erano loro che, in mezzo a mille rischi, costruivano poco a poco le cellule comuniste nei rispettivi paesi; lo stesso lavoro era svolto da Novati e Mascheroni a Desio, da Figini e Fumagalli (“Marsell”) a Muggiò, da Vanzati a Vedano, da Leonardo Vismara a Lissone. Si riuscì anche a impiantare una specie di tipografia clandestina dotata di un ciclostile a Omate, nella casa di Pirola, che era in piazza Principe Trivulzio.
La conferma della vitalità del movimento clandestino giunse quando maturò la necessità della costituzione delle Brigate Internazionali per la Spagna. Anche Monza e la Brianza diedero il loro contributo, inviando sul fronte spagnolo, per la difesa della libertà e della democrazia dall'attacco fascista, i comunisti Spada dì Monza, Pirotta e Farina di Villasanta, Vismara di Lissone e Frigerio di Vimercate.
L'organizzazione clandestina antifascista, cogli incontri al caffè “Romano” di via Carlo Alberto ai quali partecipavano, fra gli altri, Citterio, Stucchi, Antonio Passerini, entrava in una nuova fase: quella della costituzione di una rete organizzativa permanente, di una più intensa e organica attività politica e di proselitismo, di un continuo allargamento e approfondimento dei temi politici.
Il periodo tra la guerra d'Etiopia e lo scoppio del conflitto mondiale fu quindi caratterizzato da un'intensa attività dei comunisti brianzoli, che gettarono le basi della lotta antifascista e di liberazione. Era un continuo susseguirsi di riunioni, due delle quali mi rimasero particolarmente impresse. La prima ebbe luogo al Parco (in località San Giorgio) nell'estate del 1938 per discutere un ordine del giorno riguardante i collegamenti e l'organizzazione del partito (relatore Ferrari).
L'altra si svolse a Bernareggio nel dicembre del 1939 presso il bar “Francolin”, con la scusa di mangiare la lepre in salmì. Si trattò di una specie di “Comitato di Zona” del Pci con un ordine del giorno particolarmente importante, che comprendeva l'esame della situazione politica dopo lo scoppio della guerra e la firma del patto di non aggressione tra Germania e Unione Sovietica. Inoltre, da un punto di vista organizzativo, in quella riunione vennero posti in discussione i collegamenti con le fabbriche. Fra i partecipanti, ricordo Ferrari che era il relatore, Brambilla di Cavenago, Tornaghi e Stucchi di Bernareggio, Cogliati di Concorezzo e Casiraghi di Burago. Mio fratello Aldo, il figlio di Ferrari, Vladirniro e io, sia nella prima che nella seconda riunione ci trovammo sul posto col compito di fare la guardia e la spola in bicicletta nei dintorni, per segnalare eventuali movimenti della polizia fascista.
Ferrari mi chiamava spesso e mi dava una lettera, incaricandomi di portarla a qualcuno: Colombo (“Colombina”), Broggi, Caccia, Ferruccio, Messa; oppure mi inviava da un “signore” al quale avrei dovuto consegnare “certi” plichi. Attraverso questi contatti ebbi modo di conoscere diversi compagni e antifascisti, tra i quali Gianni Citterio.
In seguito alla riunione del dicembre 1939, il Pci estendeva i collegamenti con le fabbriche: per esempio con la Singer (dove operavano Mentasti, Nanni e Amaglio), la CGS (fratelli Ratti), la Gilera (Melloni) e la Pirelli (Gandini).
Nello stesso tempo diventavano sempre più stretti i rapporti con gli altri partiti antifascisti, cosicché in casa di Ferrari s'incontravano ogni giorno facce nuove: l'avv. Scali, Nino Ratti, Enrico Mauri, Colombo, Sala, Gandini, il giudice Gambalò, “Tom” Beretta, il farmacista Carlo Casanova e Antonio Passerini.
In via Pallavicini, nella casa di Emilio Ghisolfi, insegnante, ebbe inizio in quel periodo anche la scuola di Partito. Ai primi corsi parteciparono con me Vladimiro Ferrari, mio fratello Aldo e Franco Varisco. D'estate questi corsi erano condotti da Carlo Sala, un vecchio militante comunista, ex confinato a Ventotene.
Le lezioni si tenevano in un prato antistante lo stabilimento di cascami Santamaria, nei pressi del passaggio a livello di via Buonarroti.
Anche il movimento giovanile acquistò nuova ampiezza; fra i nomi nuovi di giovani antifascisti che allora cominciai a conoscere credo debbano essere ricordati quelli dei compagni Silvio Arosio (“Silvietto”), Cavalli (“Spoldi”), Aurelio Sioli (“Lo Studente”), Barbieri, Franco Varisco e Alberto Colombo, nipote di Ferrari. In conclusione, si può affermare che alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia il movimento comunista di Monza e della Brianza era un centro di vita e di lotta politica abbastanza organizzato ed efficiente. Per i compagni che avevano bisogno di aiuto funzionava il Soccorso Rosso, il cui recapito era presso il piccolo stabilimento del padre di Citterio, “La Musicografica”, in via Volta, dove aveva pure sede la redazione monzese de “L'Unità”.
Ferrari aveva anche fatto ricorso a un'efficace attività di copertura. Aveva fondato la società sportiva dei “Giovani calciatori”, con sede presso il caffè Venturelli, in via Amati. La presenza sempre più estesa ed articolata del partito impose la necessità di sdoppiare il centro di direzione di Monza: Ferrari restò in contatto con la Brianza orientale, mentre il gruppo di Enrico Bracesco, Nino Ratti e Feliciano Gerosa mantenne i legami con l'altra parte della Brianza. A Carlo Bracesco, coadiuvato dalla cognata Matilde, dalla moglie Maria e dal figlio Emilio, venne inoltre affidata la direzione del Soccorso Rosso. Quando Mussolini decise di entrare in guerra, sui muri di Monza comparve un manifesto: “10 giugno 1924: assassinio Matteotti - 10 giugno 1940: Guerra fascista”.
Per quest'azione la città era stata divisa fra due gruppi: quello di Ferrari, che comprendeva suo figlio Vladimiro, me, mio fratello Aldo e Franco Varisco, operò nelle vie adiacenti Largo Mazzini spingendosi poi, lungo corso Milano, fino al Molinetto; l'altro gruppo, capeggiato dal socialista Casanova e da Buzzelli, si occupò dell'affissione dei manifesti partendo da piazza Roma per spingersi fino al tribunale e oltre il Ponte dei Leoni.
Un episodio analogo si ebbe un anno dopo, in seguito all'aggressione tedesca all'Unione Sovietica (22 giugno 1941). Ci riunimmo di notte in casa mia; erano presenti Varisco, Ferrari e suo figlio, mio fratello Aldo e io. Ferrari mi comunicò ufficialmente che facevo parte del partito e passammo subito all'azione.
Con l'occorrente, pennelli e vernice, ci portammo, camminando a piedi, fino a Brugherio, all'incrocio della “Carrozzetta” di Monza col tram di Vimercate, per scrivere sull'asfalto e sui muri nei luoghi più frequentati dagli operai: «W l'armata rossa»; «Morte al nazismo»; «W Stalin».
Nel frattempo la “tipografia” di Omate stampava notte e giorno materiale di propaganda, ma in misura insufficiente, per cui squadre di giovani, di notte, si riunivano per riprodurre altro materiale scrivendo a mano, a “ricalco”.
Spesso mi recavo anch'io a Omate, di notte, per ciclostilare volantini di cui poi curavo la distribuzione. Ero infatti diventato la staffetta di collegamento con tutti i paesi della Brianza.
Venni anche nominato responsabile dei giovani comunisti, coi quali intensificai la propaganda: scrivevamo sui muri, affiggevamo manifesti, lanciavamo volantini nei cinematografi.
Anche le riunioni clandestine divennero più frequenti; me ne ricordo in particolare una, tenutasi a casa mia, perché vi partecipò, oltre a Ferrari e a Citterio, anche Giuseppe Gaeta, che era il vice-segretario della Federazione milanese del partito. Terminata la riunione, che ebbe luogo verso la fine del 1942 o all'inizio del 1943, Gaeta si fermò a casa mia e per tutta la notte, mentre a turno facevamo la guardia, ci parlò dello situazione politica in Unione Sovietica.
Poco dopo, nel gennaio 1943, Ferrari fu arrestato, ma venne rilasciato dopo una decina di giorni.
Erano i tempi della disfatta nazifascista in Africa e a Stalingrado; si stava avvicinando il crollo del fascismo e gli operai decisero di affrettarlo. Nel marzo 1943 anche a Monza ebbero luogo i primi scioperi dopo vent'anni di dittatura. Alla loro riuscita contribuì in misura notevole il capillare lavoro organizzativo di Enrico Mentasti. È da segnalare particolarmente il fatto che gli operai della Hensemberger e della Singer non si limitarono a presentare rivendicazioni economiche, ma chiesero esplicitamente la destituzione del governo Mussolini e la fine della guerra.
Le loro aspirazioni sembrarono realizzarsi di lì a poco: la sera del 25 luglio si diffuse la notizia della caduta di Mussolini. Il giorno successivo, a mezzogiorno, io e Varisco, partendo dal “Molinetto” percorremmo le vie di Monza su un “tandem” per lanciare volantini tra la popolazione che si era riversata per le strade. Giunti ai negozi Motta, nei pressi dell'Arengario, fummo inseguiti da alcuni militari che, a un certo punto, in corso Vittorio Emanuele, ci spararono pure una fucilata. La popolazione indignata li circondò impedendo loro di inseguirci. Un episodio analogo succedeva in via Italia. Il compagno Arosio di Muggiò, mentre distribuiva gli stessi volantini, veniva arrestato. Ma anche qui numerosi cittadini costringevano i militari a rilasciarlo.
Un folto corteo percorse le vie di Monza con bandiere rosse e tricolori inneggiando alla caduta del fascismo e reclamando la fine della guerra. Mentre il governo Badoglio si mostrava indeciso sulla via da seguire, i tedeschi preparavano l'invasione del Paese, portandola rapidamente a conclusione all'annuncio dell'armistizio».
25 Aprile 2014 a Lissone

Siamo oggi qui riuniti per celebrare la festa della Liberazione dell’Italia dalla dominazione nazista e la caduta definitiva del regime fascista.
69 anni sono trascorsi dalla fine della guerra, una guerra inutile e sciagurata in cui l’Italia era stata trascinata dal fascismo, che aveva fatto della guerra un dato fondamentale della propria azione politica e dell'educazione dei giovani.
La seconda guerra mondiale ha rappresentato il più grave e terrificante conflitto della storia dell'umanità. A descriverlo, prima delle parole, valgono molto di più le cifre.
Il totale di questa immane carneficina è spaventoso: oltre 55 milioni i morti, di cui 25 milioni i soldati e 30 milioni i civili.
Nei 12 anni di regime nazista furono sterminati nei campi di concentramento 6.000.000 ebrei.
Le vittime italiane della guerra furono 330.000 militari di cui 40.000 nei campi di internamento in Germania.
70.000 furono i civili deceduti in seguito ai bombardamenti e alle azioni di guerra.
100.000 tra civili e reduci morirono in seguito a malattie contratte nel periodo bellico.
700.000 tra operai e militari furono deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943.
La guerra aveva avuto un costo umano ed economico di grandi proporzioni.
Le condizioni materiali del nostro Paese, ridotto per tanto tempo ad un campo di battaglia degli opposti eserciti, si rivelarono tragiche. Circa un quinto dell’intero patrimonio nazionale era andato distrutto; i maggiori centri urbani erano disseminati di rovine; le strade erano in uno stato pietoso; la produzione agricola era ridotta a poco più della metà di quella dell’anteguerra; la svalutazione, per effetto dell’emissione di moneta da parte delle armate di occupazione, galoppava a ritmi vertiginosi.
Un gran numero di edifici scolastici aveva problemi di stabilità e agibilità; molti non c’erano più, altri erano semidistrutti dai bombardamenti, altri erano adibiti ad alloggi per famiglie.
Anche a Lissone la guerra aveva lasciato una pesante situazione. Gravi erano i problemi che le Amministrazioni comunali del dopoguerra dovettero affrontare; problemi acuiti dalla situazione finanziaria del Comune, che presentava un bilancio in deficit dovuto anche alle notevoli spese sostenute dal paese durante il periodo di occupazione tedesca.
Numerose erano le famiglie in difficoltà economiche da assistere: i bisognosi ammontavano a circa mille persone.
ANGELO AROSIO GENOLA fu il primo sindaco dopo la Liberazione: era stato il Comitato di Liberazione Nazionale lissonese a nominarlo.
Il Comitato di Liberazione Nazionale lissonese era composto da: Attilio Gelosa (nome di battaglia Carlo) democristiano, Agostino Frisoni (Ottavio) comunista, Federico Costa (Franco) socialista, poi sostituito da Gaetano Cavina (Volfango). Leonardo Vismara, conosciuto come Nando da Biel (nome di battaglia Raimondo), era incaricato dei collegamenti col comando militare.
Il CLN lissonese si era costituito nella primavera del 1944; i suoi compiti erano stati:
La propaganda, il reclutamento e la raccolta di mezzi finanziari; l’assistenza alle famiglie bisognose dei perseguitati politici, dei richiamati, dei renitenti e dei prigionieri militari e civili; la preparazione dei quadri dell'amministrazione comunale provvisoria che alla Liberazione avrebbe assunto i poteri.
Angelo Arosio Genola rimase in carica dall’aprile 1945 ad aprile 1946.
Dopo di lui, MARIO CAMNASIO sarà il primo sindaco di Lissone eletto nell’aprile del 1946.
Lissone era allora un paese di 15.000 abitanti. Oltre ai caduti e ai dispersi i cui nomi abbiamo visto incisi sul monumento al cimitero, 670 furono i militari lissonesi prigionieri nei campi di concentramento in Germania e in quelli americani ed inglesi, se catturati nei primi tre anni di guerra.
Gli anniversari combinano storia e memoria.
Per questo oggi desidero ricordare anche quei Lissonesi che furono fucilati dai nazifascisti o morirono nei lager nazisti.
Non erano degli eroi. Erano persone, con un nome, un volto, desideri e speranze:
ARTURO AROSIO falegname, partigiano di anni 19 fucilato a Sestri Levante; dotato di una profonda fede religiosa, consapevole del destino che lo attendeva ha scritto nell’ultima lettera alla madre «muoio contento di aver fatto il mio dovere di vero soldato e di vero italiano».
REMO CHIUSI, patriota, operaio alle Officine Egidio Brugola, di anni 23 fucilato a Monza in Villa Reale da SS naziste e militi repubblichini;
PIERINO ERBA, patriota, operaio alle Officine Egidio Brugola, aveva compiuto da pochi giorni 28 anni fucilato qui in piazza;
ERCOLE GALIMBERTI partigiano, mancavano pochi giorni a compiere 19 anni, fucilato a Susa;
DAVIDE GUARENTI, antifascista monzese di 36 anni, era stato vigile urbano a Lissone prima di entrare nelle fila della Resistenza, fucilato a Fossoli. Durante la sua permanenza a Lissone abitava in via Besozzi. Era il capo degli antifascisti lissonesi che si ritrovano presso il bar della stazione.
ATTILIO MERONI, partigiano, mancava una settimana avrebbe compiuto 19 anni fucilato in Val d’Ossola. Abitava coi suoi genitori in Via Parini;
CARLO PARRAVICINI, patriota, di professione sarto, di anni 23 fucilato qui in piazza;
MARIO SOMASCHINI, patriota, operaio alle Officine Egidio Brugola di 23 anni fucilato a Monza in Villa Reale da SS naziste e militi repubblichini.
Sono morti di stenti e per le angherie a cui furono sottoposti nei lager nazisti, e sono passati per il camino dei forni crematori:
AMBROGIO AVVOI, antifascista comunista, era un bravo falegname di 50 anni morto nel lager di Flossemburg; era un deportato politico; all’arrivo nel lager gli fu riservato un “trattamento particolare” per aver tentato la fuga dal treno che lo portava in Germania;
MARIO BETTEGA, antifascista comunista, operaio alla Breda di Sesto San Giovanni di 26 anni morto a Mauthausen; era un valido calciatore della Pro Lissone.
FERDINANDO CASSANMAGNAGO di anni 20 è morto nel lager di Dachau; di lui abbiamo poche notizie: era nato a Lissone nel 1924; sua madre si chiamava Rivolta Maria; fu arrestato a San Remo.
GIULIO COLZANI lucidatore 34 anni fu ucciso da una guardia tedesca a colpi di mitra a Buchenwald in una cosiddetta “marcia della morte”: con l’avanzata degli Alleati, i nazisti spostavano i prigionieri in altri campi di concentramento.
GIANFRANCO DE CAPITANI DA VIMERCATE impiegato aveva appena compiuto 19 anni, morto nel lager di Ebensee. Non si era presentato alla leva fascista della Repubblica Sociale.
ATTILIO MAZZI commerciante di legnami; morto a Gusen; aveva uno stabilimento per la tranciatura del legno in Via Roma, aveva 59 anni. In una lettera alla moglie dal campo di concentramento di Fossoli, prima di essere portato in Germania, ha scritto: «Qualunque cosa avvenga, tu dovrai essere fiera del nome che porti. Io non mi sono mai pentito d'essere stato e lo sarò sempre, un vero italiano – lo dissi e lo ripetei ai miei inquisitori con la testa alta».
ALDO FUMAGALLI, internato Militare figlio di Carlo e Maria Tremolada, aveva 23 anni; era un Geniere del III Reggimento di Pavia. Non è noto dove fu catturato dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943; morto nel lager di Dora. Il campo di concentramento di Dora, era quel complesso industriale nelle cui gallerie sotterranee venivano costruiti i missili V1 e V2.
Destino volle che da questo lager di Dora riuscisse a tornare il lissonese ORESTE PARMA. Era uno dei pochi superstiti di questo lager. Durante i 20 mesi trascorsi nel Lager di Dora, a causa del suo deperimento fisico dovuto alla scarsa alimentazione, rischiò di essere fucilato non avendo prontamente risposto agli ordini di un Kapò.
125.000 sono stati gli italiani riconosciuti patrioti, ma accanto a loro centinaia di migliaia furono gli operai che resistettero ai nazifascisti difendendo le fabbriche, sabotando la produzione o con gli scioperi. Ricordo gli scioperi della primavera 1944 a cui parteciparono anche gli operai delle due fabbriche lissonesi, l’INCISA e l’ALECTA.
Angelo Cerizzi, Sindaco di Lissone dal 1975 al 1985, che aveva partecipato giovanissimo alla Resistenza, ha segnalato in “Appunti su uomini e fatti dell’antifascismo lissonese” quei lissonesi Partigiani, Patrioti e Benemeriti che in misura diversa ed in vari modi hanno dato il loro valido contributo alla lotta per la Liberazione.
Oltre ai componenti del CLN locale, essi sono:
Consonni Luigi - Camnasio Mario - Donghi Luigi - Foglieni Luigi - Piatti Attilio - Casati Erino - Parravicini Giuseppe - Perego Franco - Tassinato Tiziano - Vavassori Luigi - Zappa Pierino - Arosio Alfredo - Arosio Giulio (Tan) - Arosio Luigi (American) - Beggio Giovanni - Beretta Alfredo - Besana Celestino - Brambilla Gerolamo - Carabelli Casimiro - Casati Bruno - Cerizzi Angelo- Cesana Carlo - Colombo Emilio - Colzani Francesco - Colzani Luigi - Crippa Arturo - Crippa Giuseppe - Donghi Giuseppe - Donghi Luciano - Erba Andreina - Erba Luigi - Erba Natale - Fedeli Lino - Ferrario Isacco - Foglieni Risveglia - Fumagalli Giovanni - Fusi Attilio - Galli Nino - Galimberti Giancarlo - Gelosa Giuseppe - Lambrughi Santino - Lissoni Santino - Meroni Ezio - Meroni Fausto - Meroni Giulio (Tricil) - Molteni Carlo - Muschiato Bruno - Mussi Mario (Griset) - Mutti Celeste - Negrelli Mario - Nespoli Augusto - Parma Anna – Parravicini Oreste, Perego Francesco, Perego Augusto - Pirola Gabriele - Pozzi Alfredo - Pozzi Pierino - Redaelli Attilio - Riva Augusto - Rovati Carlo - Rovati Giulio - Sala Felice - Sala Mario - Sacchetti Luciano - Scali Edoardo - Sironi Chiara - Terenghi Felice - Tromboni Eugenio - Ziroldo Augusto.
Inoltre, ricordiamo i lissonesi che dopo l'8 Settembre 1943, rimasti nell'Italia meridionale, combatterono per la Liberazione dell'Italia nel Corpo Italiano di Liberazione e nei Gruppi di Combattimento:
Arosio Ennio - Arosio Giuseppe - Galimberti Renzo - Mussi Mario - Paltrinieri Bruno - Rivolta Franco - Rovera Massimiliano - Sala Giulio - Ballabio Oreste (tuttora vivente)».
Resistenti vanno considerati i 600.000 soldati italiani che, dopo l’8 settembre 1943, rifiutando di combattere a fianco dei nazisti, furono deportati in Germania e utilizzati come lavoratori coatti nelle industrie del Reich per 20 lunghi mesi. Tra loro desidero ricordare i lissonesi: EVELINO e LUIGI MAZZOLA, mio padre ARNALDO e SALVATORE LAMBRUGHI, che è ancora vivente. Salvatore Lambrughi, subito dopo l’8 settembre 1943, venne fatto prigioniero dai tedeschi. Venne inviato sul fronte orientale a scavare trincee anticarro per impedire l’avanzata dei russi. Finì poi a Berlino costretto alla rimozione delle macerie. Venne liberato dai russi e riuscì a tornare a Lissone nel settembre 1945 dopo innumerevoli peripezie.
In questo giorno di festa desidero mandare un saluto a GABRIELE CAVENAGO che è presidente onorario della nostra Sezione dell’ANPI. Nato a Caponago il 3 aprile 1920, da oltre 60 anni risiede a Lissone. Partecipa come artigliere alla campagna di Russia. Sbandato dopo l’8 settembre 1943, entra nelle fila della Resistenza armata operante nel Vimercatese come membro delle SAP (Squadre di Azione Patriottica). Il 24 aprile 1945, ad un posto di blocco organizzato dai partigiani, viene ferito ad un braccio da un tedesco in fuga, fortunatamente senza gravi conseguenze.
Desidero ricordare anche tre sacerdoti nati a Lissone impegnati nella Resistenza: questi ed altri sacerdoti sono stati definiti “ribelli per amore”. Sono:
don LUIGI BRUSA: nato a Lissone nel 1899, fu ordinato sacerdote a Milano nel 1925; negli anni dal 1943-45 era Rettore del Santuario della Vittoria a Lecco. Don Luigi ebbe collegamenti con la Resistenza lecchese e per la sua attività rischiò la deportazione. Nella cripta del Santuario e nel salone sottostante la chiesa, organizzò un magazzino di rifornimento di viveri e vestiario coi quali aiutò i gruppi partigiani che operavano intorno a Lecco. Con grande rischio personale ospitò anche ricercati.
don ENRICO CAZZANIGA: nato a Bareggia di Lissone nel 1898, fu ordinato sacerdote a Milano nel 1927; negli anni 1943-45 fu Parroco di Liscate (MI). Diede aiuto agli sfollati della vicina Milano bombardata, ai ricercati politici, agli sbandati renitenti alla leva repubblichina, ai partigiani.
FOSSATI PADRE MARIO: nato a Lissone nel 1906, fu ordinato sacerdote nel 1934, durante la Resistenza era Parroco di Onno. Un suo intervento evitò che i tedeschi bruciassero alcuni paesi della zona di Bellagio e deportassero tutti gli uomini in Germania.
Importante è stato il contributo delle donne italiane alla lotta di Liberazione: delle 35.000 donne impegnate tra le fila della Resistenza, più di 4.000 subirono l’arresto, 2.750 la deportazione nei campi di concentramento, 2.800 la pena capitale; a queste si aggiungono le 1000, circa, che trovarono la morte sui campi di battaglia. C'erano le staffette, le informatrici, le infermiere, le addette alla stampa, le portatrici d'armi. C'era insomma intorno al movimento partigiano, sia in città che sui monti, una fitta ragnatela di donne che facevano di tutto, fronteggiando le situazioni più impensate. In questo giorno in cui celebriamo la Liberazione del nostro Paese, vorrei mandare un saluto a tre donne lissonesi ancora viventi: sono Carlotta Molgora, Piera Casati e Giovanna Erba. Carlotta e Piera, sono state staffette partigiane.
PIERA CASATI, oltre al mantenimento dei contatti tra la famiglia e il fratello Bruno, partigiano in Val d’Ossola, il suo compito principale era quella di postina.
CARLOTTA MOLGORA, nell’aprile 1945, forse in seguito a una delazione, viene fermata da alcuni repubblichini presso la chiesa dei frati di Monza, al ritorno di una missione di postina. Le sequestrano la bicicletta e la portano alla caserma San Paolo nel centro di Monza. Carlotta viene picchiata da alcuni giovani della Guardia Nazionale Repubblicana. Si ritrova con altri ventidue tra uomini e donne agli arresti all’interno della caserma. Rimane in balìa dei fascisti per due giorni. Il 25 Aprile del 1945 i partigiani monzesi danno l’assalto alla caserma dai tetti delle case circostanti, così Carlotta viene liberata.
GIOVANNA ERBA: il 16 giugno del 1944 sviene dentro Palazzo Terragni vedendo le condizioni in cui era ridotto il fratello Pierino prima della sua fucilazione qui in Piazza Libertà vicino alla fontana. Nel novembre 1944, il marito di Giovanna, Umberto Viganò, che era operaio alla Pirelli di Sesto San Giovanni, fu prelevato dai fascisti dopo uno sciopero e portato in Germania al lavoro coatto in una fabbrica di gomma. Giovanna Erba, questa donna coraggiosa, rimase a Lissone con due figlie piccole.
Tante famiglie hanno nascosto i partigiani, gli ebrei ed i perseguitati, li hanno curati quando erano feriti, hanno procurato loro cibo e assistenza. Anche a Lissone ci sono state famiglie che hanno nascosto i renitenti alla leva della Repubblica di Salò o i militari alleati fuggiti dai campi di prigionia.
Altri lissonesi hanno nascosto una famiglia di origine ebrea rifugiata nel nostro paese. Mentre alcuni componenti di questa famiglia riuscirono a mettersi in salvo in Svizzera, Elisa Ancona, vedova di Achille Rossi, venne arrestata a Lissone nell’estate del 1944 da militi della Guardia Nazionale Repubblicana. Prima di rifugiarsi a Lissone abitava a Milano ed era iscritta alla locale Comunità israelitica. L’anziana donna, venne rinchiusa a San Vittore. Fu inclusa in un trasporto con destinazione Auschwitz dove arrivò ad il 6 agosto 1944; Elisa Ancona, come avveniva per tutti gli anziani, fu avviata subito alle camere a gas; aveva 80 anni.
Da Auschwitz riuscì invece a tornare un giovane lissonese: Giuseppe Parravicini. Era un sindacalista comunista. Ricercato dopo la fucilazione dei quattro antifascisti lissonesi, il 3 luglio 1944 veniva arrestato a Milano e sottoposto a pesanti interrogatori. Tradotto al carcere di San Vittore, il 15 luglio 1944 veniva deportato ad Auschwitz. Nel mese di gennaio del 1945, quando il lager fu liberato dai Russi, Giuseppe Parravicini si trovava ricoverato nel lazzaretto del lager per pleurite. Da un ospedale all’altro, finisce all’Ospedale di Gemona del Friuli. In seguito ad un miglioramento di salute, esce dall’ospedale e con mezzi di fortuna arriva a Lissone il 22 marzo 1945. Ristabilisce i contatti con le forze della Resistenza e diventa membro del Comitato di Liberazione Nazionale lissonese. Alla fine della guerra diventa segretario della Camera del Lavoro di Lissone e la dirige per tre anni. Era riuscito a tornare vivo da Auschwitz ma sarà debilitato per sempre nel fisico.
Con il mio intervento ho voluto evidenziare come molti lissonesi abbiano dato il loro contribuito durante la guerra di Liberazione. È questo anche uno dei compiti dell’ANPI: ricordare alle giovani generazioni quanto sia costato al popolo italiano il riscatto del Paese dalla servitù tedesca e la riconquista della libertà.
Renato Pellizzoni
I LAVORI DELL' ASSEMBLEA COSTITUENTE (1946 – 1948)
L’articolo offre degli spunti di riflessione sull’ordinamento della nostra Repubblica, ancor oggi di attualità. Già durante i lavori dell’Assemblea Costituente, per la definizione di alcuni articoli della Costituzione (ad esempio sul bicameralismo), erano state avanzate delle proposte poi lasciate cadere.
Alcune date significative della storia della Repubblica
12 aprile 1944: Le stazioni radio di Bari e di Napoli trasmettono il proclama Vittorio Emanuele III agli italiani (sarà il suo ultimo): «Ho deciso di ritirarmi dalla vita pubblica, nominando Luogotenente generale mio figlio. Tale nomina diventerà effettiva, mediante il passaggio materiale dei poteri, lo stesso giorno in cui le truppe alleate entreranno in Roma. Questa mia decisione, che ho ferma fiducia faciliterà l'unità nazionale, è definitiva e irrevocabile ».
Così esce praticamente di scena il vecchio re, dopo un regno di quarantaquattro anni, durante il quale ha visto l'età di Giolitti, la guerra di Libia e la prima guerra mondiale, la vittoria e il difficile ritorno alla pace; ha visto un'Italia libera e democratica, e poi ha ceduto al fascismo.
22 aprile 1944: Si forma un nuovo governo. Badoglio ne è ancora il capo, ma i ministri non sono di scelta regia e rappresentano tutti i partiti antifascisti.
18 giugno 1944: Non più il Capo dello Stato ma il Comitato di Liberazione Nazionale designa, come presidente del Consiglio, Bonomi. Badoglio si ritira a vita privata. I membri del Governo giurano ancora nelle mani del Luogotenente, ma con la seguente formula: «I sottoscritti ministri e sottosegretari di Stato italiani si impegnano sul loro onore di esercitare le loro funzioni per i supremi interessi della nazione e di non commettere alcun atto che possa in qualsiasi maniera pregiudicare la soluzione del problema istituzionale prima della convocazione dell’Assemblea Costituente».
25 aprile 1945:Insurrezione nazionale.
16 marzo 1946: decreto luogotenenziale n° 99
Stabiliva che «contemporaneamente alle elezioni per l'Assemblea Costituente» il popolo sarebbe stato chiamato a decidere, mediante «referendum», sulla forma istituzionale dello Stato (Repubblica o Monarchia). L'Assemblea Costituente aveva il compito di fissare e regolare la forma dello Stato con norme della Costituzione.
Lo stesso decreto affidava all'Assemblea Costituente una serie di attribuzioni politiche e legislative. Le affidava innanzi tutto la elezione del Capo Provvisorio dello Stato, qualora il «referendum» avesse fatto prevalere la Repubblica sulla Monarchia e il controllo politico sul Governo, dichiarato responsabile nei suoi confronti, il che implicava la investitura fiduciaria del Governo stesso e la facoltà di obbligarlo alle dimissioni mediante una mozione di sfiducia. Quanto alla funzione legislativa, il decreto stabiliva che durante il periodo della Costituzione e sino alla convocazione del Parlamento, instaurato dalla nuova Costituzione, il potere legislativo sarebbe rimasto delegato al Governo.
Il decreto prefissava altresì la «durata» dell'Assemblea Costituente, stabilendo che essa sarebbe stata sciolta di diritto il giorno della entrata in vigore della nuova Costituzione.
Infine veniva fissata la data storica della elezione della Assemblea Costituente; storica, per vero, a duplice titolo; perché in quella giornata - che fu il 2 giugno 1946 - il popolo italiano sarebbe stato chiamato a decidere la forma dello Stato, optando tra la Monarchia e la Repubblica, e inoltre avrebbe scelto i componenti dell'Assemblea Costituente per deliberare la nuova Costituzione dello Stato italiano.
Il decreto legislativo, che disponeva queste così importanti determinazioni era, come tutti i decreti legislativi del tempo, un provvedimento del Governo - il secondo, dopo la liberazione del territorio nazionale, e presieduto dall’on. De Gasperi -, ma era stato preceduto da un parere della Consulta Nazionale. Questa Consulta era stata istituita dopo la liberazione del territorio nazionale e ad essa partecipavano esponenti delle forze politiche, che si erano affermate dopo la liberazione, e uomini politici del tempo prefascista benemeriti della Nazione per i loro precedenti «parlamentari», o per la loro resistenza al regime, come Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Nitti, Enrico De Nicola e Benedetto Croce, ma senza che la Consulta rappresentasse effettivamente, e nella proporzione delle sue divisioni politiche, la comunità dei cittadini.
La discussione svoltasi in questa Assemblea in poche giornate, ai primi di marzo del 1946, segnò l'apoteosi di Vittorio Emanuele Orlando. Il vecchio parlamentare, il Presidente della Vittoria al tempo della prima guerra mondiale, ma anche il celebre professore di diritto pubblico, era stato chiamato a presiedere la Commissione incaricata di esaminare lo schema del provvedimento legislativo, e fu lui che ne accompagnò la relazione nell'aula di Montecitorio con un discorso smagliante, che indusse il Presidente della Consulta Nazionale a proclamare l'affissione tra gli applausi dell'Assemblea.
Per la prima volta nella storia dello Stato italiano, il popolo sarebbe stato chiamato ad un «referendum» nazionale per una decisione politica di tanta importanza - le consultazioni popolari precedenti risalivano ai plebisciti di annessione, rimessi a un corpo elettorale molto limitato -; ed era anche la prima volta che lo Stato italiano avrebbe avuto una «sua» Costituzione, deliberata da un'Assemblea Costituente, in luogo dello Statuto del Regno, una carta costituzionale «concessa» nel 1848 dal re Carlo Alberto per il Regno sardo piemontese e divenuta Statuto del Regno d'Italia per estensione plebiscitaria.
I lavori della Costituente
Venne istituito un ministero per la Costituente, al quale venne preposto l'on. Pietro Nenni.
Fornito di un numero esiguo di funzionari, il temporaneo ministero per la Costituente visse in lotta col tempo, giacché la data del 2 giugno 1946 costituiva un termine non superabile, in vista del quale si sarebbe dovuto predisporre la legge elettorale, attendere alla convocazione dell'Assemblea Costituente, provvedere all'opera di informazione del pubblico e di preparazione del materiale di studio, ritenuto utile per elaborare la nuova Costituzione dello Stato.
Vennero costituite tre Commissioni: la Commissione economica, la Commissione per la riorganizzazione dello Stato e la Commissione per i problemi del lavoro, tutte formate da tecnici e cattedratici della materia, di uomini politici qualificati, nonché di funzionari dello Stato appartenenti alle alte magistrature.
Il ministero per la Costituente curò la pubblicazione di un «Bollettino di informazioni e di documentazione», largamente diffuso e che si vendeva anche nelle edicole dei giornali. Lo scopo e il tono del Bollettino era quello di divulgare in forma succinta ed accessibile a tutti le nozioni necessarie per comprendere i compiti affidati all'Assemblea Costituente, aggiornando i lettori sulle maggiori Costituzioni del mondo, sui movimenti costituzionali in atto, sui problemi e sulle scelte possibili, che attendevano l'Assemblea Costituente.
In perfetta osservanza del termine prefissato, con ordinata operazione di voto e una assai alta partecipazione dei cittadini alle urne, l'Assemblea Costituente veniva eletta nei giorni 2 e 3 giugno 1946, risultando composta di 556 «onorevoli costituenti», tra cui 21 donne.
Il sistema proporzionalistico, adottato per la sua elezione, conferì all'Assemblea Costituente una rappresentanza politica variegata. Se la dominavano i rappresentanti di tre partiti: la Democrazia Cristiana in testa con 207 «costituenti», il Partito Socialista con 115, il Partito Comunista con 104. L'Unione Democratica Nazionale, un raggruppamento che raccoglieva liberali, democratici del lavoro e indipendenti ottenne 41 rappresentanti; il Fronte dell'Uomo Qualunque» 30 rappresentanti capeggiati dal suo fondatore Guglielmo Giannini, un noto commediografo giornalista, che aveva suscitato un movimento politico intorno al suo giornale intitolato «L'Uomo qualunque»; 23 rappresentanti del Partito Repubblicano Italiano, ancorato al programma del Partito Repubblicano storico; e 36 rappresentanti di gruppi politici minori, quali Blocco Nazionale della Libertà, il Partito d’Azione, il partito dei Contadini ed altri.
Riunitasi il 25 giugno 1946 per la prima volta a Montecitorio, prescelto a sua sede, sotto la presidenza del decano Vittorio Emanuele Orlando, l'Assemblea si elesse prima di tutto il suo Presidente nella persona di Giuseppe Saragat. Indi provvide alla elezione del Capo Provvisorio dello Stato nella persona di Enrico De Nicola, avendo il «referendum» sulla questione istituzionale attribuito una netta vittoria alla forma di Stato repubblicana.
Si stabilì di deferire l’incarico ad una Commissione, composta da 75 «costituenti» e da questo numero denominata poi la Commissione dei 75, presieduta da Meuccio Ruini, già Presidente del Consiglio di Stato, appartenente al Partito Democratico del Lavoro. I 75 «costituenti» designati dal Presidente dell'Assemblea furono, in pratica, i facitori della Costituzione e furono scelti in proporzione alla forza numerica dei gruppi politici, che componevano l'Assemblea. Nella Commissione restarono compresi eminenti personalità degli stessi partiti, come Palmiro Togliatti e Attilio Piccioni, giovani e meno giovani «costituenti », sino allora ignoti, ma tra i quali alcuni sarebbero saliti ad alti ed altissimi ranghi della vita politica italiana, come Luigi Einaudi, Giovanni Leone, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Umberto Terracini e Paolo Rossi. E vi erano presenti «tecnici» di grande prestigio, come i professori di diritto pubblico Piero Calamandrei, Costantino Mortati, Tommaso Perassi.
La Commissione dei 75 fu suddivisa in tre sottocommissioni, a ciascuna delle quali fu assegnato di predisporre una diversa parte del progetto, rimettendosi ad un Comitato ristretto, chiamato di «redazione», la coordinazione delle parti, e alla Commissione nel suo «plenum» le decisioni sui punti rimasti controversi e l'approvazione finale.
Si era d'accordo che la nuova Costituzione italiana sarebbe stata una Costituzione lunga, un testo costituzionale non limitato a stabilire l'organizzazione fondamentale dello Stato, bensì a determinare, anche nei sommi suoi istituti e princìpi, l'assetto economico e sociale della Nazione.
La materia costituzionale fu così ripartita: alla prima sottocommissione si attribuirono i rapporti civili, e cioè la determinazione della posizione del cittadino come persona, nei suoi diritti fondamentali di libertà, e come partecipe della vita politica della comunità, nei suoi diritti e doveri politici fondamentali. Alla seconda sottocommissione l’ordinamento costituzionale della Repubblica con la determinazione degli organi supremi, nonché delle loro attribuzioni. Alla terza sottocommissione infine i diritti e i doveri economico-sociali, con la determinazione dei diritti del cittadino lavoratore, della iniziativa economica privata rispetto all'intervento dello Stato nella vita economica nazionale, la delimitazione più moderna e circoscritta del diritto di proprietà privata, nonché il controllo sociale della vita economica.
Vi furono delle proroghe rispetto ai tempi previsti: queste furono causate anche dall'esercizio dell'attività politico-legislativa, che in certi momenti assorbì interamente l'Assemblea e con la quale si alternava la discussione e la votazione dei singoli articoli del testo costituzionale.
Episodi culminanti di questa attività, diversa ed estranea al compito primario dell'Assemblea, furono le discussioni per la investitura fiduciaria dei tre «ministeri», sempre capitanati dall'on. De Gasperi, discussioni delle quali la più intensa fu quella per la investitura del Governo «monocolore democristiano» nel giugno 1947. Tale Governo seguiva quello che si era chiamato governo «tripartito», nel quale cioè si erano associati per la guida politica e amministrativa del Paese i tre maggiori partiti (Democrazia Cristiana, Partito Comunista e Partito Socialista); e la crisi relativa comportava la estromissione da cariche di governo dei rappresentanti del Partito Comunista. A questa crisi politica aveva contribuito la scissione del Partito Socialista nell'ultimo suo congresso tenuto a Palazzo Barberini, con la fondazione del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani ad opera di Giuseppe Saragat: un evento politico che aveva indotto lo stesso on. Saragat a dimettersi dalla carica di Presidente dell'Assemblea Costituente.
Al suo posto, venne eletto Umberto Terracini, al quale toccò l'onere e l'onore di dirigere la discussione e l'approvazione da parte dell'Assemblea Costituente della nuova Costituzione.
L'Assemblea partecipò ampiamente all'esercizio della funzione legislativa, quale organo consultivo del Governo, cui tale funzione era stata affidata durante il periodo della Costituente, esaminando un numero cospicuo di disegni di legge.
L'Assemblea Costituente iniziò l'esame del progetto di Costituzione il 4 marzo 1947. Il progetto venne innanzitutto sottoposto ad una valutazione complessiva, da cui emersero problemi che avrebbero poi dato luogo alle maggiori discussioni dell'analitica disamina dei suoi 139 articoli.
I maggiori riguardarono:
- la introduzione di un preambolo enunciativo di dichiarazioni politico-giuridiche;
- i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica e la recezione del Trattato e del Concordato del Laterano nella Costituzione;
- la introduzione dell'ordinamento regionale nella struttura dello Stato con la salvaguardia della sua unità;
- la istituzione di una seconda Camera, nel progetto chiamata «Camera dei senatori» e specialmente la sua composizione, che il progetto aveva collegata all'ordinamento regionale e ristretta a cittadini qualificati;
- la istituzione dell'Assemblea Nazionale, risultante dalle due Camere riunite, cui venivano commessi adempimenti politici di massima rilevanza, dalla elezione del Presidente della Repubblica alla investitura fiduciaria del Governo, alla mobilitazione e alla entrata in guerra, alla deliberazione dell'amnistia e dell'indulto;
- la istituzione di una Corte Costituzionale, con il compito precipuo di sindacare la costituzionalità delle leggi;
- il diritto di sciopero, dal progetto concesso senza limiti di sorta «a tutti i lavoratori», ma che si voleva limitare con riguardo precipuo ai pubblici servizi, e che si concluse con l'aggiunta «nei limiti della legge».
I verbali delle numerose sedute testimoniano che i «costituenti» seppero essere pari all'alto compito loro affidato. Non tutti i «costituenti» presero la parola, anzi la maggior parte non intervenne che con il voto; ma la presenza alle sedute fu quasi sempre elevata e sempre cospicua la partecipazione alle numerose votazioni. Furono ancora i componenti della Commissione che si distinsero nel dibattito accanto naturalmente ad altri «costituenti» e ai maggiori esponenti dei partiti politici, nonché ai ministri e al Presidente del Consiglio in carica, che peraltro tennero i loro discorsi dagli scranni dei deputati e non dal banco del Governo.
Situazione al settembre 1947
Nei primi giorni del mese passava in discussione la seconda parte del testo costituzionale, destinato all'ordinamento della Repubblica.
Proposte lasciate cadere:
- la proposta di una sola Camera, ma la seconda Camera, che tornò ad essere denominata Senato (della Repubblica) perdette quella composizione differenziata in ordine alla scelta dei suoi componenti, che il progetto aveva introdotto, e si assimilò alla Camera dei deputati;
- la proposta di una elezione direttamente popolare del Presidente della Repubblica, che i redattori del progetto avevano respinto;
- la istituzione dell’Assemblea Nazionale. Si previdero soltanto le Camere riunite in seduta comune con attribuzioni limitate.
Passarono:
- l'ordinamento regionale. Fu aggiunta la Regione del Friuli-Venezia-Giulia alle Regioni ad autonomia speciale e reintrodotte accanto ai Comuni le Province, che il progetto aveva degradato a sole circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale;
- la istituzione della Corte Costituzionale e il sistema per la revisione della Costituzione.
Approvate anche le disposizioni finali e transitorie, si volle anche sottoporre il testo costituzionale ad una politura letteraria ad opera di illustri linguisti, quali Antonio Baldini, Concetto Marchesi e Pietro Pancrazi.
Il giorno 22 dicembre 1947 il testo definitivo del progetto con i suoi 139 articoli e le disposizioni finali e transitorie, venne sottoposto al voto segreto di tutti i 515 «costituenti» presenti alla solenne seduta - anche il Presidente Terracini volle partecipare alla votazione, abbandonando il suo seggio a un Vice Presidente -, ed esso risultò approvato con 453 voti favorevoli e 62 contrari.
Proclamato l'esito della votazione fra generali applausi e conclusa la seduta in un'atmosfera di soddisfazione e anche di commozione, dopo i discorsi dell'on. De Gasperi e di Vittorio Emanuele Orlando, l'Assemblea Costituente non si sciolse ancora. Una disposizione transitoria della Costituzione stabiliva infatti che essa sarebbe stata convocata per deliberare, entro il 31 gennaio 1948, sulla legge per l'elezione del Senato, sugli Statuti regionali speciali e sulla stampa. Inoltre l'Assemblea avrebbe mantenuto, fino alla elezione delle nuove Camere, i compiti di controllo politico e di attività legislativa, che il decreto legislativo istitutivo del 1946 le aveva conferito; e in effetti le Commissioni permanenti, da essa costituite per l'esame dei progetti legislativi del Governo, rimasero a disposizione di questo.
Nel periodo residuo della sua attività di corpo politico, l'Assemblea Costituente approvò, con leggi costituzionali, gli Statuti della Sardegna, della Valle d'Aosta, del Trentino-Alto Adige e della Sicilia.
Infine approvò, completando la disposizione costituzionale sulla bandiera nazionale, l’emblema dello Stato: «La stella a cinque raggi di bianco bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota d'acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro rosso, con la scritta in bianco in carattere capitale: Repubblica Italiana».
Bibliografia:
Antonio Amorth, I lavori dell'Assemblea Costituente
in “Dal 25 luglio alla Repubblica. 1943-1946”, ERI 1966
Il campo di concentramento di Fossoli: alcuni articoli nel sito
distrutto il monumento in piazza Libertà
Il monumento dedicato ai quattro partigiani lissonesi fucilati il 16 e 17 giugno 1944 è stato distrutto da un camion in manovra giovedì 25 maggio 2014.
La liberazione di Roma
Due giorni dopo la conquista di Cassino e dell'Abbazia, nel settore meridionale del fronte, il II Corpo americano attaccava la linea «Hitler» presso Formia e in direzione di Fondi.
Altrettanto facevano algerini e marocchini sui monti Aurunci, mentre nel settore settentrionale il Corpo britannico e quello polacco combattevano aspramente a Pontecorvo e Piedimonte.
Cinque giorni dopo anche la linea «Hitler» era infranta e le Armate alleate potevano avviarsi verso Roma: l'VIII per la via Casilina e la V per la via Appia.
Una Divisione americana si dirigeva lungo la costa verso la testa di ponte di Anzio, dove il VI Corpo angloamericano forte come un'Armata, il 23 maggio aveva iniziato l'offensiva.
L'attacco principale venne sferrato verso i Colli Albani e verso Velletri, occupata qualche giorno dopo, mentre Alexander aveva ordinato di tagliare la ritirata nemica sulla via Casilina puntando in forze su Valmontone.
Clark invece preferì insistere in direzione di Roma, e Valmontone fu presa solo il 2 giugno, dopo che i tedeschi avevano completato il ripiegamento.
La città di Littoria era stata liberata dall'unica colonna americana, appena un reggimento, che dalla testa di ponte di Anzio s'era diretta verso sud, incontro alla V Armata in arrivo dal fronte del Garigliano.
Il ricongiungimento avvenne a Borgo Grappa il 25 maggio.
Nella gioia dell'incontro si dimenticava ch'esso si era fatto attendere quattro mesi più del previsto.
Clark disponeva di una formidabile piattaforma per il lancio finale su Roma.
È alla capitale ch'egli continuava a guardare, più che alla manovra di aggiramento chiesta da Alexander. Voleva arrivarci prima degli inglesi perché la nuova vittoria su Hitler portasse il suo nome.
Per i tedeschi fu un colpo di fortuna.
Essi non speravano che gli Alleati, per un motivo di prestigio personale, rinunciassero a cogliere, con un colossale accerchiamento, i frutti della vittoria.
Scampati alla trappola di Valmontone, i tedeschi abbandonavano Roma con ogni mezzo, mantenendo sgombre le strade su cui si ritiravano le Divisioni di Cassino.
Avevano perso molti uomini, ma avevano salvato l'esercito.
Proprio l'ultimo giorno vollero lasciare un altro ricordo di sangue. Alle porte della città, in frazione La Storta sulla via Cassia, per alleggerire un automezzo, assassinarono 14 prigionieri politici fra cui il vecchio sindacalista Bruno Buozzi.
Poi risalirono sui camion e ripresero più in fretta la ritirata verso nord.
Il generale Clark rievoca il giorno della presa di Roma:
«La maggior parte della gente non collega la data del 4 giugno (giorno in cui entrammo a Roma) con lo sbarco del generale Eisenhower in Normandia, ma le due operazioni erano coordinate, e mi era stato dato l'ordine di conquistare Roma, se fosse stato possibile, subito prima dello sbarco di Eisenhower.
Sicché combattemmo con tutto l'impegno e ce la facemmo appena in tempo.
Naturalmente, volevamo essere la prima Armata che liberava una delle capitali dell'«asse»; ciò avrebbe sollevato il morale degli Alleati e anche degli italiani.
Sicché fu con profonda emozione che ci avvicinammo a Roma, e il giorno in cui vidi le mie truppe marciare verso la città, e fui testimone del modo cordiale con cui vennero accolte dalla popolazione, fu un giorno particolarmente felice.
Il 5 giugno entrai anch'io in Roma con la mia "jeep" per la via Casilina.
Non eravamo molto pratici della città; il generale Hume, che era con noi, aveva suggerito che il Campidoglio sarebbe stato il luogo adatto per incontrarmi con i miei comandanti di Corpo d'Armata.
Nelle vie erano gaie folle, molti cittadini agitavano bandiere.
I romani sembravano impazziti d'entusiasmo per le truppe americane.
Il nostro gruppetto di "jeep" errava per le vie, ma non riuscivamo a trovare il colle capitolino. Ci eravamo smarriti. A un tratto ci trovammo in piazza San Pietro e un prete si fermò accanto alla mia "jeep" e disse in inglese: "Benvenuto a Roma. Posso esservi utile in qualche modo?».
«Gli chiesi la strada per il Campidoglio.
Là intendevo discutere i nostri piani immediati. Volevamo spingerci immediatamente oltre Roma per inseguire il nemico e prendere il porto di Civitavecchia.
Quando fummo in piazza Venezia davanti al balcone dal quale Mussolini soleva fare i grandi discorsi, una folla plaudente ci bloccò. Finalmente ci aprimmo un varco e salimmo sul colle.
Il portone del Campidoglio era chiuso; io bussai parecchie volte, non sentendomi molto conquistatore di Roma.
Mentre si bussava, pensai che quella era per noi una giornata storica.
Avevamo vinto la corsa di Roma per soli due giorni».
Chi nella capitale ha dimenticato quel giorno?
Era la libertà, dopo nove mesi di angoscia e di disperazione. S'affacciava un mondo nuovo, si ricominciava a vivere.
A Roma l'appuntamento col Papa è una tacita consuetudine, quando accade qualcosa d'importante. Ma il pomeriggio del 5 giugno i romani andarono da Pio XII anche per un atto di gratitudine.
Tutto in quei giorni era all'insegna della fede nell'avvenire.
Ogni occasione era buona per affollare le piazze con bandiere, applaudire, gridare e sfilare in corteo proclamando i propri ideali.
Gli Alleati assistevano sbalorditi, ed erano come travolti dall'urto caotico delle passioni politiche che esplodevano dopo tanto tempo.
Nella confusione scoppiarono anche disordini.
In Piazza Venezia, dove la gente si raccoglieva più folta che altrove, si sfondarono i cancelli del palazzo delle Assicurazioni Generali in cerca di franchi tiratori inesistenti. La polizia alleata fu costretta ad intervenire con bombe lacrimogene.
Il 6 giugno la notizia dello sbarco in Normandia. È finalmente il secondo fronte, che porterà al tracollo della Germania; e intanto in Russia le Armate sovietiche incalzano.
Di fronte alla grandezza degli avvenimenti, l'episodio dei franchi tiratori che, da una casa di via Appia Nuova, hanno aperto il fuoco contro i patrioti e i soldati americani, appare un inutile atto di rabbia e di vendetta.
Ogni giorno nuove prove della violenza subita vengono alla luce.
Finora Roma non sapeva ancora chiaramente delle Fosse Ardeatine, dove in marzo i tedeschi avevano massacrato per rappresaglia 335 detenuti politici. Adesso era un accorrere di parenti, di amici, di compagni di lotta.
L'orrore era pari alla disperazione delle madri.
Il Luogotenente, che intuiva la precarietà del momento, venne a Roma pochi giorni dopo la liberazione. Forse contava su qualche gesto di simpatia da parte dei romani. Ma la sua visita improvvisa passò quasi inosservata, e Umberto tornò a Napoli deluso.
Come si era stabilito in aprile, il governo arrivava a Roma dimissionario, e a Badoglio subentrò Ivanhoe Bonomi che raccolse intorno a sé uomini designati dai sei partiti antifascisti.
La lotta contro i tedeschi rimaneva il primo punto del programma di governo.
Oltre Roma la guerra continuava senza slancio. Ma Alexander e Clark, tornati amici dopo la contesa per Valmontone, erano ottimisti.
Alexander rivolse un proclama alle truppe:
«Questa battaglia, di cui è terminata la prima fase, è stata un successo magnifico. Come dicono i francesi: " Une belle victoire".
La conquista di Roma è in se stessa naturalmente un grande avvenimento. Ha un grande valore morale, un grande valore politico. Ma come obiettivo militare non ha che scarsa importanza.
Ciò che veramente importa è il fatto che noi stiamo compiendo quello che ci eravamo prefissi di fare, e cioè annientare sul campo le Armate tedesche.
Il nemico è in uno stato di totale disorganizzazione, avendo subìto gravissime perdite, tanto che i prigionieri sono oltre 20.000 e ci sono 8.000 tedeschi feriti ricoverati a Roma, oggi, in questo momento. Molti di più giacciono morti sui campi di battaglia.
Le perdite del nemico sono state dunque molto gravi, esso è disorganizzato. E noi lo stiamo inseguendo».
Bibliografia:
Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966
Operazione Overlord
Nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1944, una flotta gigantesca, la più formidabile mai assemblata nella storia dell’umanità, (21 convogli americani e 38 anglo-canadesi che trasportavano o rimorchiavano 2.000 mezzi da sbarco, scortati da una formazione di 9 corazzate, 23 incrociatori e 104 cacciatorpediniere) levò l’ancora dalle coste meridionali dell’Inghilterra per far rotta verso la Francia.
Le truppe alleate (che contavano nei loro ranghi 1,7 milioni di Americani, 1 milione tra Inglesi e Canadesi e 300.000 altre reclute, divise tra Francesi, Polacchi, Belgi, Olandesi, Norvegesi e Cecoslovacchi) disponevano di circa 2 milioni di tonnellate di materiale e di 50.000 mezzi (carri armati, veicoli semicingolati, automitragliatrici, camion, veicoli).
Mezzo milione di soldati del Reich era dispiegato tra l’Olanda e la Bretagna lungo il “Muro dell’Atlantico”, il sistema di fortificazioni fatto costruire da Rommel. Il grosso delle forze tedesche (la XV armata era disposta nella zona del Pas de Calais, là dove la Manica è più stretta, luogo di un probabile sbarco alleato secondo le previsioni di Hitler. Dieci divisioni blindate sono pronte ad intervenire, ma sono troppo distanti dalla costa.
Lo scarto in mezzi tra le due aviazioni è enorme: gli Alleati dispongono di 3.000 bombardieri e 5.000 caccia contro 320 apparecchi tedeschi.
È il feld-maresciallo Gerd von Rundstedt che prende il comando delle forze tedesche sul fronte occidentale. Al momento dello sbarco, Rommel è in Germania per festeggiare il compleanno della moglie.
Altri fattori rendono più facile la realizzazione del piano di invasione. Un esempio: sette messaggi trasmessi dagli Alleati alla Resistenza francese, benché intercettati dai servizi segreti tedeschi, non vengono mai ritrasmessi ai comandi militari in Francia.
Il comando supremo dell’Operazione Overlord è affidato al generale americano Eisenhower e il comando tattico al generale inglese Montgomery.
Il cattivo tempo sulla Manica provoca un ritardo di ventiquattro ore delle operazioni.
Le condizioni meteorologiche costringono il generale Eisenhower a scegliere la data del 6 giugno. La bassa marea delle prime ore del mattino e il levarsi tardivo della luna facilitano l’atterraggio degli alianti e il lancio dei paracadutisti.
Nella notte dal 5 al 6 giugno, le navi partite da diversi porti inglesi della Manica convergono al loro punto di incontro (“Piccadilly Circus”) per dirigersi sulle coste situate tra la foce della Senna e la penisola del Cotentin.
Il “Giorno più lungo” inizia alle 3 e 14 del mattino del 6 giugno con il bombardamento aereo delle difese costiere tedesche, seguito dall’atterraggio dei paracadutisti alleati (circa 18.000 uomini su 20.000 potranno compiere la missione che a loro era stata assegnata), il cui compito consisteva nell’annientare il sistema logistico del nemico. Due ore più tardi inizia il bombardamento navale alleato. La copertura aerea è impressionante e i tiri dei cannoni della marina micidiali. Pe evitare qualsiasi sorpresa, le navi dei convogli sono precedute da dragamine e protette dallo sbarramento di palloni frenati (potevano ascendere fino a quote di 1.500 m, tendendo i cavi di collegamento che consentivano di interdire ed ostacolare i velivoli ostili a bassa quota).
Alle 6 e 30 i primi segni dello sbarco: la prima ondata d’invasione del gruppo di armate, agli ordini di Montgomery raggiunge le spiagge il cui nome in codice sono “Utah”, “Omaha”, “Gold”, “Sword” e “Juno”.
Questo impressionante spiegamento di forze è seguito dall’arrivo di 145 banchine galleggianti in cemento destinate alla costruzione di porti artificiali per l’attracco di navi fino a 10.000 tonnellate e di elementi di una pipeline prefabbricata “Pluto” (Pipeline-under-the-ocean) che fornirà il carburante necessario all’armata.
I primi soldati a calpestare il suolo delle coste francesi sono gli Americani della I armata del generale Omar Bradley che sbarcano sulle spiagge d’Utah e d’Omaha dove lo stato del mare e la resistenza accanita dei tedeschi li mettono in seria difficoltà. Sulle spiagge di Gold, Sword e Juno, gli inglesi della II armata del generale Miles Dempsey sono più fortunati. Alcune ore dopo, gli Inglesi si ammassano già nei dintorni di Caen, mentre le unità americane si battono ancora contro le fanterie e le Panzer divisioni accorse in tutta fretta sulle colline circostanti.
Alle ore 9 e 33 del 6 giugno 1944, il quartier generale di Eisenhower comunica al mondo intero il seguente messaggio: «Sotto il comando supremo del generale Eisenhower, le forze alleate navali, sostenute dalle potenti forze aeree, hanno incominciato a sbarcare armate alleate sulla costa nord della Francia». È questo l’annuncio che l’operazione “Overlord”, ossia l’invasione della Francia, è riuscita e il mondo libero non può che rallegrarsene.
A mezzogiorno, il primo ministro britannico, Churchill, rivolgendosi alla Camera dei Comuni, annuncia lo sbarco in Normandia: «La prima serie di sbarchi delle forze alleate sul continente europeo è iniziata nel corso della notte. Questa volta, l’assalto liberatore è stato effettuato sulla costa della Francia. L’armonia più completa regna tra le armate alleate».
Hitler sarà informato dell’invasione solamente in tarda mattinata. Quanto a Rommel, riguadagnerà il teatro delle operazioni in serata del giorno J. Ma i tedeschi si ostinano a pensare che non si tratti della grande offensiva alleata attesa da alcuni mesi. Questo errore fatale contribuirà al successo dell’Operazione Overlord. Hitler invia l’ordine tassativo di non spostare verso la zona dello sbarco le divisioni blindate che si trovavano in altri settori e gli Alleati non saranno respinti in mare «durante la notte» come espressamente richiesto dal Führer.
Al calar della notte, al contrario, circa 160.000 uomini calpestano già il suolo francese. Anche se gli Alleati hanno raggiunto solo in parte i loro obiettivi, l’operazione è un successo.
70° anniversario della fondazione dell'ANPI
Il 6 e 7 giugno l'ANPI celebra a Roma il 70° anniversario della sua fondazione, che avvenne appunto il 6 giugno 1944, in Campidoglio, a soli due giorni dalla liberazione della città Roma. I promotori, partigiani delle formazioni cittadine e delle brigate che avevano operato a ridosso dei due fronti, di Cassino e Anzio, nel deporre le armi e dedicarsi all'avvio della democrazia nella città ritornata capitale d'Italia, vollero creare un sodalizio che riunisse i reduci, fosse di sostegno ai familiari dei caduti, promuovesse gli ideali patriottici, di libertà e solidarietà umana che avevano animato la Resistenza e spinto molti di loro ad unirsi ai combattenti del rinnovato esercito italiano integrato nelle forze armate alleate. A tali propositi l'ANPI è stata coerentemente fedele in questi 70 anni di vita repubblicana, perseguendo il bene comune, nel nome dei valori democratici che la Costituzione ha recepito dagli oppositori al regime fascista e dal popolo italiano che nella grande maggioranza ha espresso e sostenuto la lotta partigiana contro occupanti nazisti e collaborazionisti subendo anche innumerevoli stragi, persecuzioni di innocenti ed atti di vera barbarie.
A partire dal 2006, l’ANPI si è poi arricchita della presenza e partecipazione attiva di molti “antifascisti” che si riconoscevano nelle sue finalità statutarie e di tantissimi giovani. Ciò ne fa oggi una prestigiosa garante del rispetto, difesa ed attuazione della Costituzione e dei valori che in essa sono espressi. Una garanzia che nasce non solo dalla presenza di più di 130.000 iscritti, ma anche dalla autorevolezza di un’Associazione che è stata definita, in un importante documento giudiziario, come “erede e successore” dei valori resistenziali. Insomma, un’Associazione fortemente radicata nel migliore passato del nostro Paese, ma che guarda costantemente al futuro, nella speranza che si realizzino al meglio i sogni, le attese e le speranze dei combattenti per la libertà.
Il manifesto con le iniziative
I partigiani salirono al Campidoglio e fondarono la loro Associazione
Un articolo di Wladimiro Settimelli, dal numero di maggio di Patria Indipendente.
per non dimenticare Pierino Erba, Carlo Parravicini, Remo Chiusi e Mario Somaschini
16 giugno 1944 - 16 giugno 2014
Nel giorno del 70° anniversario della loro fucilazione, l'ANPI di Lissone ha ricordato i quattro giovani partigiani lissonesi con una breve cerimonia.
Un uomo muore solo quando più nessuno si ricorda di lui
Pierino Erba Carlo Parravicini Remo Chiusi Mario Somaschini
Giovedì 15 giugno 1944
Sono ormai quattro anni che l’Italia è in guerra, fino all’ 8 settembre 1943 al fianco dei tedeschi, ora con gli Alleati, che il 4 giugno hanno liberato Roma. Mentre l’avanzata degli Alleati procede lentamente lungo la penisola, il nord Italia è sotto occupazione nazista: i tedeschi, alla fine di settembre 1943, hanno contribuito alla formazione della Repubblica Sociale Italiana con a capo Mussolini, che ha la capitale a Salò, sul lago di Garda.
Da dieci giorni le truppe alleate, formate da americani, inglesi e canadesi, sono sul territorio francese. L’operazione Overlord, che ha portato più di 1.200.000 soldati sulle coste della Normandia, è in corso anche se la resistenza tedesca si sta rivelando più dura del previsto.
A Lissone da un mese si è formato il locale Comitato di Liberazione Nazionale.
Lo sciopero generale del marzo 1944 (a cui avevano partecipato anche gli operai dell’Incisa, che contava circa 1200 dipendenti e dell’Alecta, 500 dipendenti) aveva ottenuto un grande e lusinghiero successo così da scuotere in Lissone l'assenteismo della popolazione, interessandola alla lotta per la liberazione e a coloro che combattevano per ottenerla.
Lissone, Venerdì 16 giugno 1944.
Da alcune ore i quattro partigiani lissonesi Remo Chiusi, Mario Somaschini, Pierino Erba e Carlo Parravicini, accusati dell’attentato in Corso Milano contro due militi fascisti (avvenuto in tarda serata di ieri), sono nelle mani dei nazifascisti: Erba e Parravicini sono presso la Casa del Fascio di Lissone (l’attuale Palazzo Terragni), Chiusi e Somaschini in Villa Reale a Monza.
Nell'ora di uscita degli operai dal lavoro, gli altoparlanti chiamano a raccolta la popolazione in piazza Ettore Muti (l'attuale piazza della Libertà) per assistere ad uno spettacolo. La gente, ignara di quanto stava per accadere, si ferma e s'infittisce in una sospettosa attesa. Ad un certo punto, dalla scalinata della Casa del Fascio scendono due giovani quasi incapaci di reggersi in piedi per le torture subite: sono Pierino Erba (di 28 anni) e Carlo Parravicini di anni 23. I due partigiani vengono messi davanti alla fontana e fucilati tra lo sgomento della popolazione.
L'incredulità e lo sbigottimento della folla attonita lasciano il posto all'orrore ed al terrore ed in un attimo la piazza si svuota mentre altre raffiche di mitra solcano l'aria.
Ed inizia una sera impregnata di spavento, la gente si chiude nelle proprie case ed in paese sembra che il coprifuoco sia calato in anticipo tanto le vie sono deserte: si sentono solo le scarpe chiodate delle ronde che perlustrano le strade facendo scoppiare qualche bomba a mano o sventagliando contro l'acciottolato delle raffiche di mitra per il sadico gusto di intimidire maggiormente la gente.
L’indomani alla Villa Reale di Monza, Remo Chiusi e Mario Somaschini, entrambi ventitreenni, subiscono la stessa sorte dei loro amici.
Nei giorni seguenti anche Radio Londra nella trasmissione "La Voce della Libertà" ricordava il tragico episodio esaltando il martirio dei quattro patrioti.
Finita la guerra, i solenni funerali dei quattro partigiani lissonesi furono celebrati il 13 Maggio 1945 nella chiesa di San Carlo.

A guerra terminata, sulla tomba a loro dedicata presso il cimitero urbano

i Lissonesi scrissero:
“libertà e umanità fu per questi martiri anelito di vita, insofferenza di tirannia, assassinati da piombo fascista e da sevizia nazista, lor giovinezza immolata è monito di pace e di giustizia, cittadini meditate ed imparate”.

L’anno successivo fu posta sul luogo della fucilazione una targa commemorativa in marmo, recante la scritta “Parravicini Carlo, Erba Pierino, Chiusi Remo, Somaschini Mario nel nome della libertà caddero trucidati dai nazifascisti il 16 -17 giugno 1944”.
La cerimonia di inaugurazione avvenne alla presenza del Sindaco ing. Mario Camnasio (1946 - 1951).

La lapide commemorativa originaria, nel 2005, iniziati i lavori di riqualificazione di Piazza Libertà, è stata ricollocata al cimitero urbano.

Inoltre i dipendenti delle O.E.B. Officine Egidio Brugola, a ricordo dei loro colleghi, posero una lapide all’interno dello stabilimento in Via Dante.
Nel 1985, in occasione del 40° anniversario della Liberazione, l’Amministrazione Comunale, Sindaco Angelo Cerizzi, e la Direzione aziendale realizzarono un nuovo monumento in acciaio che reca la scritta ” “Gli operai di questo stabilimento pongono a ricordo dei loro compagni di lavoro SOMASHINI MARIO, ERBA PIERINO, CHIUSI REMO caduti per la libertà”. Ancora oggi nelle ore notturne viene illuminato, a perenne ricordo.


Dopo il 25 Aprile 1945, la piazza principale della nostra città (Piazza Fontana per i lissonesi), per un breve periodo fu chiamata Piazza IV Martiri prima di assumere la denominazione attuale di Piazza Libertà. Nel corso del XX secolo la piazza, ha cambiato nome diverse volte: dapprima Piazza della Chiesa (per la presenza della vecchia chiesa), poi, dopo la I guerra mondiale, Piazza Trento e Trieste, in seguito, dal 1934 Piazza Vittorio Emanuele III, quindi Piazza Ettore Muti.
nella foto: I Maggio 1945 in Piazza IV Martiri.
Dal balcone di Palazzo Terragni, il socialista monzese Ettore Reina parla ai lissonesi, attorniato dai membri della locale Sezione del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale)
L’A.N.P.I. lissonese, mentre ricorda il sacrificio di questi quattro giovani concittadini, desidera dedicare anche un pensiero a tutti i lissonesi che in vari modi si opposero al fascismo. Vogliamo ricordare anche chi attuò la cosiddetta Resistenza silenziosa ed i cui nomi non sono riportati nei libri di storia o nei documenti ufficiali, chi lottò nelle file della Resistenza armata, chi fu internato nei campi di concentramento in Germania, tutti coloro che persero la vita perché anche Lissone divenisse una città libera e democratica.
documento originale sulla fucilazione di Pierino Erba e Carlo Parravicini
documento originale sulla fucilazione di Remo Chiusi e Mario Somaschini
(i documenti sono l'esatta trascrizione degli originali conservati presso gli Archivi di Stato di Milano)
Leopoldo Gasparotto, un uomo d'Azione
Il 22 giugno1944, su ordine del Comando delle SS di Verona, Poldo Gasparotto, prelevato dal campo di Fossoli veniva ucciso a tradimento. Nel 70° anniversario della sua fucilazione, l'ANPI di Lissone lo ricorda.
Leopoldo Gasparotto era nato a Milano il 30 dicembre 1902. Educato in una prospettiva laica nei valori della patria e della democrazia, durante gli anni trascorsi al liceo Berchet anima il gruppo studentesco repubblicano; nel 1922 si iscrive al Partito repubblicano e frequenta il Circolo milanese di via Sala, cenacolo del mazzinianesimo lombardo.
Nell'agosto 1923 inizia il servizio militare in artiglieria; si congeda nel novembre dell'anno successivo col grado di sottotenente di complemento. Laureatosi nel 1926 in giurisprudenza all'Università di Milano si specializza come avvocato civilista e coadiuva il padre nello studio legale di via Donizetti 32. Il Partito repubblicano viene disciolto, a fine 1926, insieme alle altre formazioni antifasciste; Gasparotto, contrario al partito dominante rinunzia alla politica, sfiduciato sulla possibilità di rovesciare la dittatura.
Gli anni della gioventù sono rallegrati dalla passione per l’alpinismo. Alle prime impegnative escursioni sulle Dolomiti e sul Brenta, seguono lungo tutto il corso degli anni venti ardite ascensioni sul monte Bianco, sul monte Rosa, sulla Grigna.
Alle escursioni montane Gasparotto unisce dalla metà degli anni trenta il gusto per il volo; conseguito il brevetto di pilota, acquista un piccolo apparecchio Breda 15 S, per il quale utilizza la pista di Taliedo (poi intitolata a Forlanini).
Il matrimonio con Nuccia Colombo nel 1935.
Lina (Nuccia) Colombo (Varese 1913-Pisa 1977) condivide col marito l’impegno antifascista; passata in Svizzera il 12 settembre 1943 col figlioletto Pierluigi (nato il 6 luglio 1936), nel marzo 1944 dà alla luce il secondogenito Giuliano e dopo tre mesi rimpatria clandestinamente per partecipare alla Resistenza, affidando la prole a Ofelia Muradore, tabaccaia di Besso (Lugano), che ospitava Ernesta Battisti, vedova di Cesare, e la sua famiglia. Assunto il nome di battaglia di Adele, Nuccia Gasparotto coopera col Comando di piazza di Milano e tiene i contatti con dirigenti delle Brigate Matteotti.
Gasparotto divenuto tenente di complemento di artiglieria di montagna, nel giugno 1935 frequenta la Scuola di alpinismo di Aosta. In quella circostanza diviene amico del generale Luigi Masini, direttore della scuola (filosocialista).
Nel 1936-38 Gasparotto è istruttore ai corsi per guide alpine organizzati presso la Scuola di Aosta. Secondo la testimonianza del giovane imprenditore Leonida Calamida: “Nell'inverno 1938, Gasparotto mi invitò con altri due o tre amici ad arruolarmi ad un corso straordinario per allievi ufficiali, aperto a coloro che, pur avendone avuto diritto, non avevano voluto durante il servizio militare di leva essere ufficiali. La durata del corso sarebbe stata di un semestre, con frequenza di una ventina di giorni al mese. Era importantissimo - ci disse Poldo - che frequentassimo questo corso, per poi, come ufficiali, svolgere fra i militari opera di proselitismo antifascista. In una eventuale insurrezione, l'appoggio dell'esercito o almeno la sua benevola neutralità sarebbero stati di capitale importanza per noi. Poldo era convincentissimo ed io non potevo che dargli ragione.”
A Milano nel 1942 si stabiliscono i primi contatti clandestini in ambito repubblicano-azionista, intensificati dal gennaio 1943, quando lo studio legale Gasparotto, in via Donizetti 32, diviene il punto di smistamento del foglio clandestino «L'Italia Libera», organo del Partito d'Azione, formazione politica cui Poldo Gasparotto aderisce, partecipando alle riunioni convocate clandestinamente. Caduto il regime, l'attività politica ritorna alla luce del sole. Lo studio legale di Mario Paggi," in via Brera 2, diviene il quartier generale del Partito d'Azione milanese. A metà agosto Milano è colpita da terribili bombardamenti aerei; chi può lascia la metropoli, per sfuggire a una situazione insostenibile. Le distruzioni acuiscono l'odio verso la guerra e alimentano la sensazione di un prossimo rivolgimento di fronte. Nell'estate alcuni azionisti, tra cui Poldo Gasparotto, organizzano una rete informativa, per segnalare agli alleati gli spostamenti delle truppe tedesche; la villa di famiglia in località Cantello Ligurno, a mezza strada tra Varese e la Svizzera, diviene la base logistica dell'attività illegale, avviata nella prospettiva della lotta contro l'occupazione nazista.
La clandestinità, l’arresto e la prigionia
Nei primi giorni di settembre, quando appare imminente il rovesciamento delle alleanze militari, Poldo Gasparotto progetta con Pizzoni la formazione della Guardia nazionale, struttura militare per il reclutamento di volontari decisi a opporsi ai tedeschi. Al mattino dell'8 settembre il generale Ruggero assicura l'esecutivo antifascista dell'imminente consegna di armi, ma prende tempo. In serata Badoglio rende noto l'armistizio. L'indomani mattina si presenta alla sede del Comando di piazza, in via Brera, una delegazione del Comitato di Liberazione Nazionale milanese; accanto al comunista Girolamo Li Causi vi è Luigi Gasparotto, tra i più decisi nell'incalzare il titubante generale Ruggero. Il 9 settembre il Partito d'Azione stampa e distribuisce un volantino inneggiante al binomio Esercito e Popolo: «chiunque tenti di spezzare questa unità è nemico del popolo e della nazione italiana», proclamano gli azionisti, nel rivolgere un appello all'arruolamento della cittadinanza.
L'azionista Giuliano Pischel, partecipe degli eventi, indica la: paternità del progetto e ne sintetizza gli immediati sviluppi: «L'idea che aveva ventilato Poldo Gasparotto, della costituzione di una Guardia nazionale, veniva ripresa dal Comitato interpartiti tramutatosi in Comitato di Liberazione Nazionale. Ma l'unità operativa tra esercito e popolo resta un'utopia.
Il generale Ruggero, timoroso delle ritorsioni tedesche, si è limitato a generiche promesse, senza esporsi a livello operativo. Il suo atteggiamento è influenzato dall'arrivo del tenente colonnello dei Carabinieri Candeloro De Leo, presentatosi quale emissario del Comando supremo. De Leo, dirigente del servizio segreto militare, vanta contatti col generale Ambrosio e induce Ruggero alla passività.
Un episodio illuminante sulla condotta dei vertici militari nei confronti della nascente organizzazione partigiana, è quella che vide protagonista Rino Pachetti, comandante partigiano. La notte del 9 settembre Pachetti organizzò con Poldo Gasparotto un'azione alla Caproni di Milano; autorizzato dal Gen. Ruggero e con la collaborazione di dirigenti della fabbrica, con pochi uomini uomini disarmò i carabinieri di guardia allo stabilimento e prelevò due autocarri su cui caricò 96 mitragliatrici calibro 7,7 con circa 300.000 colpi e 80.000 maglie per nastri. Questo ingente bottino doveva armare gli uomini, di cui Pachetti aveva assunto il comando, che si andavano raccogliendo tra Cernobbio e il ed il confine svizzero. Il Generale Binacchi, comandante del presidio militare di Como, fermati gli uomini di Pachetti e approfittando della sua assenza, sequestrò le armi che furono poi consegnate ai tedeschi.
Il 10 settembre i rappresentanti del comitato cittadino (Gasparotto, Li Causi, Damiani e Pizzoni) consegnano al comandante di Corpo d'armata una lettera programmatica, per indurlo a rompere gli indugi e ad assecondare l'azione patriottica.
Quel medesimo giorno il generale Ruggero incontra emissari del Comando germanico, da lui rassicurati sulla propria disponibilità. Nel pomeriggio un nuovo abboccamento con gli esponenti antifascisti sancisce la rottura dei rapporti: l'alto ufficiale ha infatti concordato coi tedeschi che l'esercito non ostacolerà l'occupazione della città.
Privi di armi, i promotori del CLN tengono un comizio in piazza Duomo e poi passano nella clandestinità. Scontri sporadici con i tedeschi culminano il pomeriggio del 10 settembre nei pressi della stazione centrale: civili armati si oppongono all'occupazione della stazione e negli scontri uccidono tre militari germanici. In serata il generale Ruggero legge alla radio un comunicato in cui informa dell'avvenuta occupazione delle principali città della Lombardia e dell'Emilia Romagna. In sostanza il Comando di piazza, su direttiva di De Leo, ha lasciato agire indisturbati i tedeschi.
Al mattino dell’11 settembre i punti nevralgici della metropoli sono sotto controllo germanico.
Su istruzione di De Leo, il generale Ruggero scioglie la Guardia nazionale, sulla base della normativa che vieta ai cittadini l'uso non autorizzato delle armi. Le dinamiche del capoluogo lombardo si ripetono con impressionante analogia in numerose altre città: da Torino a Firenze a Roma. In Lombardia, quel medesimo giorno, reparti germanici assumono pacificamente il controllo di Brescia e di Cremona. I vertici militari restano inerti, quando non collaborano apertamente con l'occupante. Le modalità dell'armistizio, l'ambiguità del comunicato letto da Badoglio alla radio, la fuga del re e dei ministri gettano le forze armate nella confusione, tanto più che i tedeschi sferrano un'impressionante offensiva nella penisola e nei presidi italiani all'estero. Il comportamento di De Leo si chiarirà con l'immediata adesione alla Repubblica sociale italiana, per la quale dirigerà il Servizio informazione militare (SIM). Il 12 settembre i tedeschi, completata l'occupazione di Milano, perquisiscono i cittadini e fermano i militari, in violazione degli accordi stipulati col generale Ruggero. La popolazione è disorientata e demoralizzata dallo scioglimento dell'esercito, disgregatosi all'apparire del nemico. Lo stesso giorno vengono occupate, senza colpo ferire Varese, Como e Sondrio.
Il 12 settembre Gasparotto organizza il passaggio in Svizzera della moglie e del piccolo Pierluigi, attraverso un varco clandestino nella rete confinaria, nei pressi del valico del Gaggiolo. Nuccia si stabilisce a Lugano (dove 1'8 marzo 1944 darà alla luce il secondo figlio, Giuliano). Espatria anche Luigi Gasparotto, ricercato in quanto vecchio antifascista; da Bellinzona si collegherà ai rappresentanti del governo Badoglio in Svizzera.
Con i familiari al sicuro nell'asilo elvetico, Leopoldo Gasparotto passa alla clandestinità (nome di battaglia: Rey) e assume la guida della struttura militare lombarda del Partito d'Azione, coordinandosi col Comitato militare del CLN di Milano, costituito a metà settembre: «Sostituto e primo collaboratore di Parri fu Poldo Gasparotto, il quale partecipò alle riunioni del Comitato militare con tanta frequenza che in alcune testimonianze compare come membro effettivo».
I tradizionali moduli militari si dimostrano inadatti alla lotta contro l'esercito occupante e i reparti collaborazionisti; gruppi numerosi e poco mobili prestano il fianco ad attacchi micidiali, condotti con uno spiegamento di forze cui non è possibile opporre una resistenza frontale. Gasparotto fa tesoro di questa constatazione e dispiega un'azione su due livelli: in ambito urbano e nelle vallate lombarde; tiene viva a Milano un'organizzazione clandestina e alimenta i gruppi costituitisi in località fuori mano. Tra le realtà periferiche di cui è animatore e catalizzatore vi è la provincia di Bergamo, dove si reca di frequente per impiantare la rete militare.
Rey si sposta di frequente dalla città alle vallate alpine, per coordinare l'attività clandestina delle bande e organizzare depositi di armi: visita la Val Brembana e la Val Codera, il Pian dei Resinelli e il Colle di Zambla, ponendo a buon frutto la conoscenza di quelle zone montuose, frequentate sin dagli anni venti in escursioni alpinistiche.
Il Triangolo Lariano, quella zona che si protende nel lago compresa tra Como, Erba, Lecco e Bellagio, da classico riferimento per le gite e le vacanze dei milanesi divenne un luogo attraversato da un flusso costante di soldati allo sbando, prigionieri alleati, perseguitati politici in fuga. A metà ottobre in un incontro a Pontelambro tra Leopoldo Gasparotto, il Col. Alonzi, incaricato dal Comitato militare del CLN milanese di tenere i collegamenti con il Comasco, il Col. Morandi, il Ten. Fucci e Giancarlo Puecher si esaminano le possibilità di organizzare nuclei stabili di partigiani nella zona del Triangolo e canali di espatrio più sicuri di quelli che spontaneamente erano stati creati nella zona dalla popolazione, dal clero e da esponenti locali dei partiti antifascisti. I fuggiaschi venivano guidati attraverso percorsi secondari per evitare posti di blocco e pattuglie in perlustrazione, trasbordati dalla sponda orientale a quella occidentale del Lario da barcaioli fidati e quindi accompagnati da valligiani, spesso anche contrabbandieri, sui sentieri che si inerpicavano sui monti che separano il Comasco dalla Svizzera.
Il 23 ottobre passa di nascosto il confine per incontrarsi in una villa di Lugano con esponenti del Comitato di liberazione attivi in Svizzera e informare gli Alleati delle caratteristiche e degli sviluppi assunti dalla guerriglia partigiana.
Dal punto di vista politico l’area in cui Gasparotto opera include – con gli azionisti – repubblicani, socialisti e liberali.
Tra le priorità dell'organizzazione azionista vi è l'approntamento di una via di fuga verso la Svizzera per ebrei, ex prigionieri alleati e ricercati politici. La vita clandestina è dura, col frequente abbandono di un rifugio e la ricerca di un nuovo asilo, nel continuo timore di essere segnalati da una spia o di incappare in un posto di blocco. L'esistenza precaria, incalzata da fascisti e tedeschi, preclude i contatti con i familiari. Saltuari biglietti, portati oltre confine da persone sicure, contengono poche righe e sono redatti in modo da non provocare danni se dovessero finire in mani nemiche. Sostenuto da un ottimismo di fondo, Gasparotto vede prossime la liberazione della patria e la fine della dittatura fascista.
A Milano i tedeschi giocano contro il movimento partigiano la carta di Luca Osteria, il «dottor Ugo», l'abile segugio che dopo un quindicennio di lavoro spionistico per conto della polizia fascista è passato al servizio dei nazisti.
A metà pomeriggio di sabato 11 dicembre è programmato, nel nascondiglio di piazza Castello, l'incontro con emissari dei gruppi partigiani del monte Grigna. Si tratta di uno degli appuntamenti periodici per fare il punto della situazione, scambiare notizie e concordare una strategia comune.
Un evento imprevisto scompagina i piani e mette la polizia fascista sulle tracce del ricercato. Alle ore 17 la città è già avvolta dalle tenebre. Gasparotto, appena entrato nel portone di piazza Castello 2, viene afferrato da alcuni poliziotti, che lo gettano per terra, lo immobilizzano e gli chiudono le manette ai polsi.
La vita clandestina si è protratta per tre mesi, dopo la lucida visione della necessità di iniziare senza indugi la lotta armata.
Portato a Porta Nuova, in un grande edificio scolastico divenuto base logistica di formazioni paramilitari fasciste, che lo utilizzavano come carcere e luogo di tortura, Gasparotto viene poi rinchiuso a San Vittore, nella cella 12 del sesto raggio, col numero di matricola 864, a disposizione dei tedeschi. La retata dell’11 dicembre è dovuta alla spiata del sessantottenne Luigi Colombo, proprietario di una farmacia del centro cittadino.
Resistere agli interrogatori non è facile. l tedeschi interrompono la segregazione soltanto per portare la loro vittima nella camera di tortura. La violenza fisica è integrata dalle pressioni psicologiche. A Gasparotto si chiedono i nominativi dei compagni; dai prigionieri sospettati di contatti con lui si pretendono rivelazioni sul suo ruolo. Nessuno dei compagni di lotta di Gasparotto ha subito conseguenze dal suo arresto; nell'estate 1944 Indro Montanelli, riparato in Svizzera, ricorderà con riconoscenza la capacità di serbare il silenzio in circostanze così pesanti: «Quando fu arrestato seppi da Martinelli che Poldo aveva taciuto il mio nome, insieme a quello di tanti altri, nonostante le torture a cui era stato sottoposto.
A Gasparotto viene persino serrata la testa in un cerchio di ferro, senza tuttavia riuscire a farlo parlare del CLN milanese né dei rapporti stabiliti con l'intelligence alleata, tra Lombardia e Svizzera. Le SS, consapevoli dell'importanza del personaggio, cercano in ogni modo di piegarne la tempra. Settimana dopo settimana, il detenuto resiste all'isolamento, immerso nei suoi pensieri e attento ai minimi segnali di vita che gli pervengono dalle altre celle.
Nella primavera del 1944 buona parte del gruppo dirigente del Partito d'Azione milanese è sotto chiave, in condizioni fisiche deplorevoli per il trattamento vessatorio praticato dai tedeschi. Rimangono liberi - oltre a Parri - Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi e Leo Valiani.
Invece della deportazione in un Lager del Reich, il prigioniero viene internato a Fossoli.
Il 22 giugno, su ordine del Comando delle SS di Verona, è prelevato dal campo e ucciso a tradimento.
Bibliografia:
- “DIARIO DI FOSSOLI” di Poldo Gasparotto - a cura di Mimmo Franzinelli - Bollati Boringhieri, Torino 2007
- “Storia del Partito d’Azione” di Giovanni De Luna – Utet Libreria 2006
- “La calma apparente del lago” di Vittorio Roncacci – Macchione Editore 2004
Io so cosa vuol dire non tornare.
A traverso il filo spinato ho visto il sole scendere e morire.
Ho sentito lacerarmi la carne le parole del vecchio poeta:
“Possono i soli cadere e tornare,
a noi, quando la luce è spenta, una notte infinita è da dormire”.
Primo Levi
Leopoldo Gasparotto ritratto da un compagno di prigionia a Fossoli e una pagina del Diario
dal “Diario di Fossoli”
26 aprile
L'autobus corre attraverso Carpi, poi Fossoli e infine [ ... ] scorgiamo un cartello POL-LAGER. Siamo al campo.
Ci inquadriamo, ad libitum, a gruppi di venti, veniamo avviati ad una baracca ...
30 aprile
Il grosso soldato tedesco ha ucciso un ebreo con una rivoltellata, per errore.
Sono andato all'infermeria per farmi fare un'iniezione endovenosa di calcio e, per la prima volta dopo cinque mesi, mi sono guardato allo specchio, avendo il piacere di non riconoscermi. Eppure gli amici dicono che in questi tre giorni sono migliorato.
18 maggio
Ascensione. La bandiera non viene inalberata! Con amici sento il desiderio di ritornare alla baracca. Nella baracca, sono attratto dal mio «castello», finisco nevitabilmente per sdraiarmi sul pagliericcio e rinchiudermi nella mia tana. Cinque mesi di isolamento mi hanno abituato, come molti cani tenuti troppo a lungo alla catena, a non sentirmi me stesso se non sono isolato, nella mia cuccia. Pure, partecipo alla vita del campo: mi sforzo di presenziare, quando vi son chiamato come legale, ai «consigli di campo» e, più raramente, alle serotine assemblee di camerata.
15 giugno
Per la prima volta da oltre vent'anni non sono, in quest'epoca, sulle guglie della Grignetta o della Presolana, sul nudo granito della Val Masino o sugli sterminati ghiacciai dell'Oberland bernese e del Bernina. Quando rivedrò le montagne?
da "Diario di Fossoli" di Leopoldo Gasparotto